martedì 2 dicembre 2008

Il piacere e l'amore - di Nuri Bilge Ceylan. Con Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan, Nazan Kesal, Mehmet Eryilmaz. Produzione Turchia/Francia 2006.

Ancora solitudine. Ancora sentimenti che mutano ed inaridiscono. Il regista turco mette di nuovo l'accento sul disagio interiore questa volta conseguente ad un rapporto amoroso che si chiude, si riapre, si chiude di nuovo, ma con volontà alterna. Isa - docente di storia dell'arte - e Bahar - produttrice televisiva- si amano. Lei decide di lasciarlo durante le vacanze, ormai insofferente al rapporto. Si perdono completamente di vista al ritorno ad Istanbul. Lui, dopo aver adescato una vecchia fiamma con la quale si esibisce in un amplesso(condiviso) al limite dello stupro, va in cerca di lei. Ritrovata, sarà lui a lasciare lei questa volta. Lo scorrere del tempo e degli eventi segna inevitabilmente anche le passioni. Come il cambio delle stagioni condiziona la natura. Da qui il titolo originale "Iklimler", climi in turco, che dettano i tempi dell'amore vuoto compreso: tra le stagioni - in estate si chiude, in autunno si riaccende, in inverno si chiude ancora - manca la primavera. La stagione in cui sbocciano i fiori. Stagione in cui per Isa non sboccerà mai più nulla. Primi piani, lunghi silenzi, paesaggi innevati ed una Istanbul gelida e triste come da copione - come anche Pamuk straordinariamente descrive nel suo "Instanbul" - fanno da cornice ad un film che conferma l'abilità del regista balcanico nel descrivere la condizione dell'uomo moderno che affannosamente rincorre per avere e deliberatamente perde una volta ottenuta. Qualche forzatura ed una banale linearità della storia amorosa non tolgono nulla ad un film di valore, artigianale, sincero, corredato da una splendida fotografia.

martedì 4 novembre 2008

Tribe After Tribe - "M.O.A.B. - Stories From Deuteronomy". RodeoStar 2008.

Dopo sei anni di silenzio tornano i Tribe After Tribe e lo fanno come meglio non potevano. Capitanata dal carismatico Robbi Robb, la band sudafricana osa ancora di più rispetto al solito piazzando, probabilmente, uno dei dischi dell'anno. Certo il disco migliore della loro già intensa seppur povera(in fatto di titoli) discografia. "M.O.A.B.", acronimo dai significati più disparati(allo stesso tempo ricercati e non causali) - dalle note di presentazione del disco rappresenta il deserto di Moab dove Mosè e gli israeliti commisero crimini contro popolazioni locali dedite a credi pagani, alla "Mother Of All Battles" invocata da Saddam Hussein, alla risposta americana con la "Mother Of All Bombs", la "Massive Ordnance Airblast Bomb" - è un disco complesso ed allo stesso modo scorrevole che lascia con il fiato sospeso. Ispirato in parte dal Deuteronomio, dall'Antico Testamento, è un insieme di alternative rock, musica tribale, psichedelia, world music ed altro ancora. Un concept pacifista che abbraccia tutti i temi cari da sempre a Robb, impegnato lungamente fin dai primi passi contro l'apartheid nel suo paese. Diviso in passaggi drammatici ed altri rabbiosi, tra narrazioni e fughe etniche, "M.O.A.B." è un vero e proprio manifesto contro l'ipocrisia imperante dei potenti della terra. Una ricerca incessante che filtra e snellisce senza mezzi termini i mali che attanagliano la comunità globale, sbattuti in faccia senza colpo ferire: "Burning Bush" ne rappresenta l'emblema. Un lavoro intrigante che nelle sue tante sfaccettature risulta equilibrato, ma che riesce ad evocare lo spirito che lo attraversa con una forza espressiva con pochi eguali e che presenta analogie concettuali e strutturali con "Mabool" degli Orphaned Land. La stupenda chiusura con "Red Sky" e "World Drum" mette i brividi, mentre con "Holy City Warrior" t'innesta il seme della rivolta. Disco oltre sotto ogni punto divista, anche lì dove sembra eccessivo quando si fa comunque perdonare con la sincerità che lo contraddistingue. Storie che dal passato si riflettono nel presente e viceversa. L'umanità è destinata a commettere sempre gli stessi (o)errori. I Tribe After Tribe sanno come esorcizzarli.

sabato 27 settembre 2008

Anathema - "Hindisight" - Kscope 2008.

Bisogna ancora attendere per il nuovo degli Anathema perchè questo 'Hindsight' non è altro che la riproposizione di brani già editi in versione semi-acustica(con un inedito). Ma questo non fa del disco un lavoro che non merita attenzione. Anzi, conoscendo la vena umorale e la finezza negli arrangiamenti dei fratelli Cavanagh potreste già provare ad immaginare a cosa andrete incontro. Tinte e sfumature malinconiche amplificate dagli strumenti classici ed un'atmosfera da camera rendono brani noti per la loro alta carica emozionale anche migliori delle versione orginali. Come nel caso di "Flying", di "One Last Goodbye" e di "Fragile Dreams" che toccano ancora di più dentro, nel profondo, dove la voce di Vincent si abbassa ed allo tempo si fa ancora più eterea pronta a rimarcare la malinconica rassegnazione che impregna ogni composizione della band. Se per tutti i brani vale una riproposizione fedele rispetto alle versioni orginali, ma spogliate in buona parte dalla ritmica e dall'elettricità, "Are You There" è sorretta, invece, dalle chitarre acustiche con un soprendente tempo andante che cuce addosso alla canzone un vestito nuovo senza sfigurarne l'aspetto: un capolavoro dal respiro armonico incontrollato che scioglie il sangue nelle vene. Molto bello anche l'inedito, "Unchained(Tales Of The Unexpected)", anch'esso lanciato tra le spire delle corde dell'acustica che chiude un disco di cui se ne sentiva comunque il bisogno, pur se aggiunge poco alla straordinaria evoluzione cui gli Anathema si prestano disco dopo disco. E dopo questo 'Hindsight' chissà cos'altro ci riserveranno.

martedì 5 agosto 2008

Certi Bambini - di Antonio ed Andrea Frazzi. Con Rolando Ravello, Gianluca Di Gennaro, Nuccia Fumo, Miriam Candurro, Arturo Paglia. Colore 94 min. Produzione Italia 2004.

Come un ragazzino di 11 anni finisce al soldo della camorra. La storia di Rosario che vive solo con la nonna nel cuore della Napoli antica raccontata in continuo flash back attraverso i ricordi stessi che Rosario rivive mentre in metropolitana si dirige verso il suo primo "lavoro". Tratto dal romanzo di Diego De Silva, è un film sull'infazia negata e sulle sempiterne ferite di una città che se da un lato tenta di ridare speranza attraverso l'opera di un prete e dei servizi sociali, dall'altro sembra sempre più forte il richiamo della strada e dell'arroganza, della violenza. In un crescendo teso e con uno sgurado fisso sulla storia senza nessuna pretesa di fornire motivizioni sociologiche, i fratelli Frazzi costruiscono un'opera esemplare, realistica, drammatica, con il solo difetto di non essere andati più a fondo sull'assenza dei genitori sfiorata solo all'inizio quando Rosario accarezza la madre in una foto attaccata ad uno specchio. Finale lancinante che in un certo senso, nonostante tutto, ci mostra Rosario ancora attaccato ai suoi 11 anni con la voglia di tirare calci ad un pallone assieme ad altri ragazzini. O che, forse, ammazzare un uomo è già diventata un'abitudine fin dal primo colpo.

lunedì 7 luglio 2008

Vanessa Van Basten - "La stanza di Swedenborg" - Eibon Records, Cold Current, Radiotarab, Noise Cult 2006.

Curioso monicker dietro cui si celano due ragazzi liguri, Morgan Bellini e Stefano Parodi qui all'esordio ufficiale. "La Stanza Di Swedenborg", che dovrebbe essere intesa come quel posto in cui il teosofo, scienziato e mistico svedese riteneva che l'anima si materializzasse in un altro mondo(nel concetto del disco come una via di mezzo tra vita e morte in attesa del trapasso definitivo), è un disco che si accoda alla miriade di band dedite al post-rock strumentale, ma con una veste psichedelica e cerebrale assai definita. Nel senso che i suoni sono molto dilatati ed eterei, a dir poco cosmici. Nel senso che le suggestioni evocate e le atmosfere create hanno uno spessore visionario e cinematografico che materializzano figure e corpi dalla personalità ora latente, ora ben tracciata. Ed in fin dei conti è proprio questa la grande forza del CD, essere un progetto sonoro che trasmette una percezione allucinata della realtà. Musica che si trasforma in immagini, ferma nella "stanza", che si materializza tramite gli ascoltatori. In un altro mondo. Diverso, ancora più impercettibile delle otto tracce che lo compongono perché dopo il trapasso le note si affinano, prive del peso del "corpo". Lavoro emotivo, umorale, intriso di una armonica malinconia come se non ci fosse altro che rassegnarsi al sentimento di perdita del presente, dell'istante, che attanaglia tutti gli uomini manifestandosi tramite chitarra sporca, rozza, pesante che scambia effusioni con synth e programming, e si alterna ad attimi silenziosi ed a pause ambient dal tempo quasi recitativo. Pubblicato grazie alla compartecipazione di quattro etichette diverse, "La Stanza Di Swedenborg" è un luogo dove si esce cambiati una volta entrati. Una esperienza lisergica che non si dimentica che metterà a repentaglio le vostre poche certezze e la vostra stabilità emotiva.

mercoledì 18 giugno 2008

Arturo Fiesta Circo - Distratto A Sud. Faier Entertainment/Venus Dischi - 2008.

Registrato al live club "All'unaetrentacinquecirca" di Cantù, 'Distratto A Sud' oltre ad essere un disco dal vivo è anche il primo disco degli Arturo Fiesta Circo capitanati da Sergio Arturo Calonego. Partenza di carriera anomalo quanto sorprendente se si considera che il disco è un piccolo drappo di stoffa pregiata. Un sestetto alle prese con uno swing jazz blues cantautorale che in parte fa il verso a Conte ed al Fossati penultima maniera, ma che in modo personale riesce a ritagliarsi uno spazio tutto proprio grazie a frequenti contaminazioni che hanno il sapore antico delle vecchie canzoni appassionate di uno chansonnier ubriaco, con l'anima a pezzi ed il cuore ancora disposto ad amare. Una piccola orchestra che tra un bicchiere e l'altro intrattiene con grazia ed una sottile malinconica ironia gli astanti attraverso liriche che toccano il quotidiano, le amarezze, le illusioni e le piccole soddisfazioni che la vita riserva all'uomo moderno. Una performance interattiva che dialoga frequentemente con il pubblico tra un brano e l'altro e che evidenzia anche lontano dalla musica un personaggio, Sergio, capace di catalizzare verso sé una partecipazione impegnata ed allo stesso tempo rilassata del pubblico. Non è facile parlare di brani in particolare, anche se "Rimini" emerge dal resto con il suo andazzo trasognato e triste e la sua melodia portante che ti trapassa il costato con il punteruolo delicatamente lancinante della fisarmonica di Armando Illario(sugli scudi anche nella suadente "Il Tango Dei Temporali"). Alla fine ne viene fuori un ritratto a tutto tondo di un circo che diverte e fa divertire, ma che non riesce a trattenere(forse non vuole neanche) un riflesso emotivo e mesto che bilancia l'apparente spensieratezza che traspare dai brani. Unico appunto è forse la voce stessa di Sergio, poco flessibile e troppo spigolosa nella cadenza, ma lo si supera agilmente vista la bontà complessiva di una proposta che riuscirà a soddisfare ampiamente palati fini e non.

martedì 13 maggio 2008



Forse la giovinezza è solo questo

perenne amare i sensi senza pentirsi.


Sandro Penna

venerdì 18 aprile 2008

Il cinema secondo Hitchcock - di Francois Truffaut. 311 pg.

Dai più ritenuto - probabilmente a ragione - il più bel libro sul cinema, quest'opera risulta sicuramente tra gli apici delle bibliografia sulla settima arte. Pensato da Truffaut nel lontano 1967, il libro è una lunga conversazione che ripercorre la filmografia del regista inglese. Tantissime domande, appunti sul montaggio, sugli effetti speciali, sui tempi narrativi, sui mezzi utilizzati, curiosità varie sui successi dei film e dettagli curiosi sui risvolti delle riprese, sceneggiature comprate e mai diventate film, considerazioni sugli attori, tanto fine umorismo e molto altro che oltre al genio mettono in mostra anche molta vita privata di Hitchcock. Una sorta di biografia sia professionale, sia umana che investe quasi 50 anni di vita del regista di capolavori come "Psycho", "Intrigo Internazionale" e via discorrendo. Un'opera che santifica un grande del secolo passato che non godeva affatto di tutti i riconoscimenti ricevuti dopo la sua morte, ma anche un libro di supporto alla quasi ossessiva insistente azione di Truffaut nel mettere in risalto e ritenere indispensabile la filmografia del regista perlopiù snobbato dalla critica del tempo. Intuizioni, dibattito lucido e serrato ed una bellissima presentazione dello stesso regista e critico francese, poi, fanno da cornice ad un quadro di per sé già eccezionale. Un libro, passatemi la retorica, che non dovrebbe davvero mancare a nessun cinefilo che sia tale.

mercoledì 9 aprile 2008


Neronoia - Il Rumore Delle Cose. Eibon Records 2008.

Concettualmente non si discosta di una virgola dal precedente 'Un Mondo In Me', anche se stilisticamente ne accentua la sfumature noise e sperimentali. Riprende il discorso lasciato dal precedente ed i suoni, ancora più filtrati, diventano una sorta di seconda parte, il lato B delle composizioni precedenti. Un filo logico ben saldo come testimoniano i titoli dei brani ancora una volta in numerazione romana che partono dall'XI. 'Il Rumore Delle Cose', secondo capitolo del progetto Neronoia(Canaan e Colloquio), per dirla subito, si pone un gradino sotto l'esordio. Pregevole, ma non all'altezza del precedente. Forse troppo ragionato, ricercato e meno spontaneo perde quell'immediatezza, quell'urgenza che contraddistingueva il debutto. Ma sia chiaro trattasi di sottigliezze, perché se preso per quello che vale il disco manifesta una qualità comunque spaventosamente alta. E' un lavoro che sa far male, molto male, soprattutto nella sua seconda parte dove include i pezzi migliori come "XVII" e "XVIII" che ti scorticano delicatamente l'anima, senza fretta: una carezza con la carta vetro nel palmo della mano. Le atmosfere oltre che lugubri si fanno anche algide, rarefatte, ma postume di una devastazione. Se 'Un Mondo In Me' rappresentava lo stato di una condizione esistenziale disperata, 'Il Rumore Delle Cose", invece, ne evoca le conseguenze. Un livello successivo del male di vivere che mostra gli scenari interiori dopo la conclusione di una guerra. Cosa ti resta dentro se non cumuli di macerie, corpi straziati e fumo nero come la pece che inonda la terra? Da qui l'accentuazione delle sfumature industrial e noise su cui, però, a dire il vero, le liriche di Gianni si innestano in modo meno ispirato rispetto al debutto, meno incisive ed a tratti ripetitive. Un disco che, probabilmente, non ripaga del tutto dell'attesa, in definitiva, ma suggestivo, emotivamente imponente, evocativo. La conferma di un progetto che cerca la chiave della porta per dare aria ad un'interiorità che non conosce pace, ad una condizione umana perennemente apatica, ma che non ha nessuna intenzione di cambiare stanza perché le cose che fanno rumore lì dentro segnalano presenza di vita. Dolorosa, lancinante, ma clamorosamente vera.

venerdì 4 aprile 2008

My Blueberry Nights - di Wong Kar Wai. Con Norah Jones, Jude Law, Rachel Weisz, Natalie Portman, David Strathairn. Colore 111 min. Produzione Francia, Cina, Hong Kong 2007.

In molti si chiedevano cosa ne sarebbe rimasto della poetica del regista cinese al suo primo film americano. La risposta è immediata: è ancora tutta lì, integra. Struggente, poetica, lacerante. Visivamente emozionante. Come sempre, in pratica. Elizabeth(Norah Jones) vive un lutto amoroso, lasciata dal ragazzo. Comincia a frequentare il ristorante gestito da Jeremy(Jude Law). Parla con lui, si confessa. Lui ricambia. Ogni sera lei mangia la deliziosa torta di mirtilli con gelato che lui prepara(da qui il titolo originale. Ridicolo il titolo scelto per la distribuzione italiana che per pudore non nomino neanche). Ma Elizabeth non è ancora pronta. Le ferite sono ancora fresche. Aperte, fanno ancora male. Allora decide di partire alla ricerca della cura. Incontrerà altri cristi alla deriva per poi ritornare alla fine del viaggio dopo quasi un anno. Un road movie malinconico, amaro e per certi versi anomalo dove la protagonista si sposta di città in città senza che c'è dato vederle. Un film d'interni che sfoggia una fotografia che lascia a bocca aperta e girato quasi interamente in notturna dove il tocco di Wong è ancora più pronunciato. Luci e neon, vetrine fumose, atmosfera sommessa e ritmi lenti, protagonisti quasi incorniciati da frequenti primi piani, ralenti, immagini sbiadite, colonna sonora importante e straziante(Ry Cooder) ed una presa di posizione controcorrente che rinuncia alla tecnologia e lascia Elizabeth scrivere a penna una marea di cartoline spedite all'amico Jeremy. Certamente pellicola più lineare delle precedenti e forse il finale più lieto della filmografia del regista asiatico, ma questo è grande cinema. Lussureggiante, romantico, sognante. Il racconto di una crescita interiore che avviene proporzionalmente al contatto con altri disperati. Ritrovare se stessi nel dolore e nel senso d'angoscia degli altri. E quando capisci che i sentimenti non fanno più paura, allora è tempo di attraversare di nuovo la strada. Bene la Jones qui alla sua prima prova ed eccellenti tutti gli altri, Strathairn su tutti nelle vesti del poliziotto alcolizzato lasciato dalla moglie(Rachel Weisz. Bellissima).

Più Wong Kar-Wai per tutti.

venerdì 28 marzo 2008

Nimh - "Unkept Secrets" - Silentes Records 2008.

Il nuovo Nimh(Giuseppe Verticchio) è un lavoro in prima istanza sperimentale oltre che evocativo. Ha la forza di sorprendere quando meno te lo aspetti, ma allo stesso tempo riesce a creare visioni inquietanti quanto suggestive. In questi termini 'The Unkept Sectrets' è un paradosso, una figura retorica onomatopeica a rovescio che parte dal presupposto di essere un libro(sonoro) zeppo di termini che inquadrano un gesto, un movimento, un paesaggio, un tormento. Un insieme di sfumature elettroniche, dark, drone, etniche che formano un'azione, generano un'idea, suscitano un'emozione. Come nell'immensa "Visions In Black", tra le migliori composizioni tra quelle che ho avuto modo di ascoltare fino ad oggi di Verticchio in cui un crescendo di tensione arriva al culmine per poi dissiparsi di nuovo: e' un vento minaccioso che fa sbattere porte e finestre durante una sera d'autunno. All'improvviso ti entrano in casa figure tormentate che cantano un lamento disperato, straziante. Poi il vento cala di intensità e la casa si svuota lentamente mentre le ore passano, la notte si presenta ed il cuore ancora ti trema. 'The Unkept Secrets' è un viaggio, il prosieguo di un viaggio iniziato anni fa, nei labirinti dell'anima e della mente, ma anche un viaggio nel senso letterale del termine alla ricerca di quei segreti del titolo in terre lontane, essenzialmente ad est del mondo, in quei posti dove ancora il tempo scorre certo inesorabilmente, ma molto lentamente, fino a dare la sensazione di essersi arrestato. Indicativa l'ultima traccia, "One More Ride On The Merry-Go-Round" dedicata a Tiziani Terzani, scrittore e viaggiatore che dedicò gran parte della sua vita all'Asia ed alle sue situazioni politiche, sociali e soprattutto spirituali: lui stesso affermava la vita è un giro di giostra, ed ogni giro, ogni nuovo giro, te la cambia. Come cambia anche l'ispirazione di Verticchio il quale ci rende partecipi della sua traversata virtuale proprio lì dove Terzani si fermò a vivere. Ad aiutarlo, oltre ad un set di strumenti necessario che marchiano la direzione stilistica ed emozionale, la presenza di una chitarra elettrica utilizzata quantitativamente come non mai, forse, in precedenza. Un ulteriore passo verso la ricerca di uno stato interiore ideale che probabilmente non troveremo mai, ma motivo primo per cui impegneremo ugualmente un'intera vita nel tentativo di raggiungerlo.


Sito ufficiale

martedì 25 marzo 2008

Onora il Padre e la Madre - di Sidney Lumet. Con Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Marisa Tomei, Albert Finney. Colore 117 min. Produzione Usa 2007.

Ad 84 anni suonati Lumet ci arriva con ancora tanta rabbia in corpo. Questa sua nuova opera è un inno cinico in cui serpi velenose covano bastardamente dentro la famiglia. Tanto per dirci ancora una volta che il nucleo familiare può essere, di pari passo con un rifugio, anche un qualcosa da cui fuggire perché si perpetrano crimini indicibili. Figli alla deriva in guai economici e sentimentali. Bevitori incalliti e tossici che organizzano una rapina alla gioielleria dei genitori. Da due teste di cazzo non c'era d'aspettarsi filasse tutto liscio. Prima Hank(Hawke) manda a puttane il colpo tirandosi dietro un complice incapace; dopo Andy(Seymour Hoffman) non riesce a tenere a freno la valanga generata dal fratello(e dalla sua mancata organizzazione di un piano b) e mette in moto un vortice di pura follia omicida complice anche una vita interiore e matrimoniale fallimentari. Sarà lui stesso vittima per mano inaspettata. Figli che uccidono i genitori, genitori che uccidono i figli. Con una struttura temporale che rimanda al modo in cui ogni protagonista vive la faccenda, a metà tra flash-back e scomposizione e con fervida lucidità il buon vecchio Sidney inscena una tragedia familiare diabolica dove la devastazione interiore dei protagonisti comporta risultati sconvolgenti. Saltano tutti i ruoli al cospetto di una resa dei conti dove ognuno è a suo modo una belva inferocita alla ricerca di una via salvifica o di vendetta. Charles(Finney), il padre è, forse, metaforicamente, l'unico a trovare quello che cerca in quell'abbaglio finale che lo conduce beffardamente in "paradiso" prima dell'arrivo del "diavolo"(vedi significato del titolo originale del film. Per l'ennesima volta storpiato dalla distribuzione italiana). Bellissimo e con interpretazioni eccezionali(e con la Tomei che per la prima volta si mostra in tutto il suo splendore).

venerdì 21 marzo 2008

Inverno
Sono affannosi come strade in salita i giorni nel cuore dell’inverno,sentieri impervi che portano nei campi nudi in letargo, o che salgono ai monti solitari, dove il vento del Nord la notte fa sibilare i fili dei tralicci alti sul mare scosceso delle rocce. Eppure è adesso, nella terra inerte disfatta dai geli e dalle piogge, che il grano in erba cova le sue spighe,gli alberi scheletriti i frutti, le siepi desolate le prime viole nere per la festa della Candelora. E forse sono proprio queste attese che l’uomo si porta nel sangue dalla nascita, ed il pensiero che se uno vuole, la sera, può accendersi ancora il fuoco in qualche posto, che aiutano i vecchi soli con se stessi ad attraversare questi mesi morti, fatti di giorni brevi, grigi, tutti uguali nel cielo chiuso dei mattini senz’alba.

Antonio Seccareccia

giovedì 20 marzo 2008

Saviour Machine - Legend Pt. I - MCM/Massacre Records - 1997.

La trasposizione in musica del libro dell'Apocalisse, l'ultimo libro della Bibbia. Un progetto che se chiamato ambizioso sminuirebbe tutto il lavoro, la premura e la dedizione che i nostri hanno applicato alla composizione di questa prima parte e di quelle successive. Un progetto dal fascino irresistibile capace di esprimere tutti gli umori, le sensazioni, le paure della profetica distruzione dei Tempi e della "Rivelazione" di Cristo che dovrebbe avverarsi dopo i 7 anni finali dominati dall'Anticristo. "Legend", the official soundtrack for the end of the world". E mai descrizione migliore poteva essere azzeccata. Una sinfonia drammatica che toglie il respiro, capace di proiettare l'ascoltatore all'interno delle vicende descritte(con una cura a dir poco maniacale) e di renderlo partecipe dell'intero racconto. Il sound di base è quello già ascoltato in "Saviour Machine II", ma viene sviluppato con un appesantimento della chitarra, molto più corposa e meno fluida e "limitata" al solo riffing, mentre a farla completamente da padrone è la maestria di Van Hala attraverso le cui mani passano orchestrazioni sia oscure(nella maggioranza dei brani), sia più ariose. La ritmica diventa instabile, imprevedibile, eco onnipresente delle catastrofi musicate e letterate ed infine, come già nei precedenti lavori, la voce di Clayton che troneggia su tutto, deus ex machina dell'intera compagnia. Le song si susseguono senza tregua né pause, tutte accomunate da un unico filo conduttore sia lirico sia strumentale, e si alterano in slow song ed in altre più ricche di ritmiche e percussioni, si librano nell'aria in ballate pianistico-sinfoniche e viaggiano nei luoghi del concept in altre più heavy e presentate da un tripudio di inserti melodici orientaleggianti, funerei, creando un quadro sonoro d'insieme assolutamente impareggiabile. Oltre i generi, oltre le etichette, un'opera messa a disposizione dell'umanità e conservata nel museo d'arte drammatica dell'anima di questa terra.

Behold, Time Is Legend, And History Is Time. This Our Is Mine.

lunedì 17 marzo 2008

I Padroni Della Notte - di James Gray. Con Joaquin Phoenix, Mark Wahlberg, Robert Duvall, Eva Mendes, Tony Musante. Colore 117 min. Produzione Usa 2008.

Epica familiare. Questo il sunto del terzo film di James Gray il quale, tentando la carta definitiva del successo, con questo nuovo film fa il verso a registi del calibro di Scorsese ma in particolare di Ferrara. Le vicende narrate sono quelle della famiglia Grusinsky: Bert(Duvall) capo della polizia di NY; Joseph(Wahlberg) figlio che segue le sue orme; Bobby(Phoenix) gestisce un mega locale(si scoprirà della mafia russa). Quando Joseph fa irruzione con la narcotici nel locale del secondo alla ricerca di spacciatori si innesta un meccanismo tragico di violenza e morte che comporterà anche uno "scambio" di ruoli tra i fratelli. Film tesissimo con sequenze da brivido(vale per mille quella dell'inseguimento in soggettiva) che inscena la spietatezza del crimine e di pari passo la cruda realtà di una famiglia che seppure alla fine vincitrice il trofeo ottenuto non è per nulla consolatorio. Anzi, il finale è di un amaro incontenibile. Atmosferico e lugubre, girato quasi del tutto in notturna, "I Padroni Della Notte" è un poliziesco classico nella struttura e nel tema(la vendetta), ma moderno nel suo incedere. Ripropone il finire degli anni '80 in una New York malinconica e lurida dove ogni angolo è un posto dove puoi facilmente trovare la tua tomba. Dove il Bene trionfa sul Male, ma paga un prezzo altissimo ed il futuro è tutto fuorché roseo. Colonna sonora sparata al massimo e protagonisti ben calati nei ruoli. Adrenalinico e riflessivo allo stesso tempo.

Bert(Duvall): Se ti pisci nei pantaloni stai al caldo solo per un po'.

giovedì 13 marzo 2008

Kolya - di Jan Sverak. Con Zdenek Sverak, Andrej Chalimon, Libuse Safrankova, Stella Zazvorkova. Colore 105 min. Produzione Rep, Ceca 1996.

Il muro di Berlino crollerà di lì a poco. Siamo a Praga nel 1988.
Un violinista decaduto, Louka(Zdenek Sverak, padre del regista), una volta famoso, sposa una donna russa per soldi. Lei ha solo bisogno di alcuni documenti. Quando la donna scappa via una volta ottenutoli abbandona suo figlio Kolya(che parla soltanto il russo). Louka, un uomo scontroso, ribelle, costretto alla sopravvivenza a causa della sua esclusione dall'orchestra filarmonica di stato per un diverbio con un burocrate del partito comunista dovrà prendersene cura. Al suo terzo film Sverak conferma a pieno il suo talento dirigendo una storia apparentemente semplice ma dagli aspetti di fondo complessi. Rapporto tra due estranei che non parlano la stessa lingua e di età agli antipodi in un contesto storico-politico ancora più ingarbugliato come quello che si è avuto sul finire degli '80. Due estranei, un "invasore"(Kolya, russo), ed un "invaso"(Louka, ceco). Scanzonato, tenero, divertente, "Kolya" è un film sulla paternità e sulla convivenza, sulla forza del sentimento che supera ogni tipo di ostacolo(la polizia segreta alle calcagna che vuole fare luce sul matrimonio "fasullo") e sul caso che con ineluttabile fermezza mette fine ad ogni "ostilità" con le manifestazioni di giubilo per la morte del regime comunista che posiziona tutti i personaggi dalla stessa parte. Oscar come miglior film straniero e lontano da ogni accondiscendenza lacrimevole. Qualche ruffianata, ma ironico, ottimista, delizioso.

martedì 11 marzo 2008

Prima della Pioggia - di Milcho Manchevski. Con Katrin Cartlidge, Rade Serbedzija, Gregoire Colin. Colore 115 min. Produzione Macedonia/UK 1994.

Tre episodi. Tre storie che si intrecciano e formano un unico plot narrativo. Un unico racconto drammatico che scuote l'anima, che ti pulsa nel petto e nella testa alle porte dei conflitti etnici nella ormai ex-Jugoslavia. Conflitti che travalicano i confini ed arrivano in altri paesi separando ed allo stesso tempo unendo destini. Zamira, albanese, si rifugia in un monastero macedone accusata di aver ucciso un uomo.
Anne lavora in una agenzia inglese a Londra. Perderà il marito accidentalmente in una sparatoria e si innamora di Alexander, fotografo macedone tormentato dai suoi stessi scatti e dalla volontà di tornare al suo villaggio anch'esso preda della guerra civile. Struttura complessa che lascia volutamente più di un punto in sospeso mentre il racconto non si ferma neanche in punto di morte. Il senso che si avverte è che la violenza non conosce limiti mentre l'uomo li mostra miseramente tutti. Qui alla seconda prova, Manchevski tiene insieme i tanti fili di un puzzle visivo toccante e lo fa con la maestria di un autore navigato. Sceglie un'ambientazione arcaica, paesaggi mozzafiato e spennellate di colori anticati che ti fanno capire da dove discende il film. E quella scomposizione (a)temporale della sceneggiatura, che rende lo scorrere del tempo la colonna sonora di un insieme di anime destinate a non trovare mai quiete, fornisce materia di discussione a volontà sul concetto del cerchio(finisce lì dove inizia) che non si chiude mai. Davvero un gran film. Leone d'oro a Venezia ex aequo con "Vive l'amour" di Tsai Ming-Liang.

lunedì 10 marzo 2008

Il Segreto di Esma - di Jasmila Zbanic. Con Mirjana Karanovic, Luna Mijovic, Leon Lucev. Colore 90 min. Produzione Bosnia Herzegovina 2006.

La guerra nella ex-Jugoslavia è ancora una ferita aperta e dolorosissima. Esma la vive sulla sua pelle come fosse ieri. Il suo segreto la tormenta, le cicatrici sulla schiena non nascondono quelle ben più devastanti che si porta dentro. Una figlia adolescente irrequieta e ribelle con la quale ha un rapporto di amore smisurato non lenisce quel dolore. E' quella figlia stessa e la sua insistenza nel volere conoscere la vera identità del padre a gettare ancora più sale in quelle cicatrici, fino a quando non arriva il momento di dire la verità. Quando ormai è talmente inaudito il peso di quella verità che in uno scatto di rabbia lo sfoghi anche sulla persona a te più cara. Film bosniaco, "Il Segreto di Esma" è l'affresco sincero di una umanità ancora in cerca di pace. E' una storia tutta al femminile che gronda di disperazione e di attimi di dolcezza, di stenti e delle lacerazioni di un popolo combattuto che non riesce a trovare il suo posto definitivo nella Storia. Una Sarajevo martoriata dove sono ancora visibili le tracce della guerra fa da palcoscenico ad un gruppo di attori che interpreta con intensità ruoli scomodi e non facili. Su tutti la Karanovic(Esma) la quale si dà anima e corpo nel personaggio di una madre che seppur non riesca a sputare fuori la melma che l'insidia l'anima se non nel finale, riesce a trovare in sé l'amore materno quando madre lo è diventata senza desiderarlo.

sabato 8 marzo 2008

Factotum - di Bent Hamer. Con Matt Dillon, Lili Taylor, Marisa Tomei, Karen Young. Colore 94 min. Produzione Usa.

Henry Chinasky è la quintessenza dell'autodistruzione. Si trascina di bar in bar, cambia lavoro continuamente, irrequieto negli affetti anche quando (forse) trova la donna della sua vita, strafatto di scopate e di alcool e devoto ad una apatia profonda che rappresenta la linfa vitale della sua esistenza. Relaziona con altri perdenti, con donne ai margini, attaccato perennemente alla bottiglia. L'unica sua certezza è scrivere. Scrivere di quella vita, scrivere dell'inferno che si sta vivendo e farlo solamente per raccontare, non per redemirsi, né come valvola di sfogo. Alter ego di Bukowski, un Matt Dillon sorprendente e coraggioso che si ritaglia addosso un personaggio a tutto tondo e fottutamente credibile, Chinasky è un disadattato figlio di puttana immerso in una realtà ancora più acida e distruttuvia, in quell'America fatta di poveri cristi alla deriva dimenticati anche dal padreterno. Regista norvegese, Hamer mette al servizio del personaggio la telecamera senza mai prendere posizione. Come Chinasky, anche lui, a modo suo, si limita a raccontare quello che succede oltre l'obiettivo facendo coincidere con questa scelta il difetto ed il pregio di un film comunque valido, appassionante, dannato, scorretto. In qualche punto più lento del dovuto, ma reso fluido dalla magistrale interpretazione di un Dillon in stato di grazia. Ormai l'unico belloccio di Hollywood con le palle nello scegliere sceneggiature scomode e dallo scarso appeal commerciale.

venerdì 7 marzo 2008

Parliamoci chiaro, pur amando alla follia il loro primo periodo, quelli della Syd Barrett era, i Pink Floyd sono stati e saranno per sempre Roger Waters. Questo senza sminuire l'apporto fondamentale di Gilmour e soci. Waters è un genio del nostro tempo, probabilmente una delle menti più fervidi cui possa vantare la musica attraverso i secoli. Il video è in oggetto è quello di "It's A Miracle", estratto da quell'immenso capolavoro dal titolo "Amused To Death". Se vi capita date anche una lettura al testo sotto. Disco pubblicato nel 1992 già avanti di 20 per i temi contenuti. E "It's A Miracle" ne rappresenta il classico esempio lampante.



Miraculous you call it babe, You ain't seen nothing yet
They've got Pepsi in the Andes, McDonalds in Tibet
Yosemite's been turned into A golf course for the Japs
The Dead Sea is alive with rap
Between the Tigris and Euphrates There's a leisure centre now
They've got all kinds of sports They've got Bermuda shorts
They had sex in Pennsylvania
A Brazilian grew a tree
A doctor in Manhattan Saved a dying man for free
It's a miracle, Another Miracle
By the grace of God Almighty And the pressures of the marketplace
The human race has civilized itself
It's a miracle
We've got warehouses of butter, We've got oceans of wine
We've got famine when we need it, Got designer crime
We've got Mercedes, We've got Porsche, Ferrari and Rolls Royce
We've got choice
She said meet me In the Garden of Gethsemene my dear
The Lord said Peter I can see Your house from here
An honest family man Finally reaped what he had sown
A farmer in Ohio has just repaid a loan
It's a miracle
By the grace of God Almighty And the pressures of the marketplace
The human race has civilized itself
It's a miracle
We cower in our shelters, With our hands over our ears
Lloyd-Webber's awful stuff Runs for years and years and years
An earthquake hits the theatre But the operetta lingers
Then the piano lid comes down And breaks his fucking fingers
It's a miracle...

giovedì 6 marzo 2008

La Famiglia Winshaw - di Jonathan Coe. 480 pg. 1995

Uno scrittore, Michael Owen, che prende in carico l'onere di scrivere la biografia di una potente famiglia inglese negli di governo della Thatcher. Ne resterà vittima man mano si addentrerà nei segreti e nelle vicende che caratterizzano tutti i Winshaw, fino al colpo di scena finale, beffardo e cinico. Parte di quella trilogia di Coe sui vari decenni della vita politica e sociale dell'Inghilterra, "La famiglia Winshaw" dei tre("La Banda dei Brocchi" e "Circolo Chiuso" gli altri due) fa storia a sè non avendo legami con gli altri due romanzi. E, probabilmente, è quello che nonostante descriva un periodo storico di una specifica nazione riesce ad inquadrare alla perfezione gli anni '80 di un qualsiasi altro paese. Difficile non rispecchiarsi in una decade storicamente importante soprattutto sul piano politico. Al di là di queste considerazioni, Coe dimostra ancora una volta una di essere un dissacrante cantore di una nazione potente e complessa. Il suo stile si fa ancora più acido senza mai perdere d'occhio la leggerezza, l'ironia ed il romantisismo di fondo che lo contraddistinguono. Mette a nudo tutti i vizi e la bastardaggine del potere di una famiglia composta da affaristi privi di scrupolo con uno sguardo amaro e disilluso che attraversa più generi, dal giallo al comico. Per giunta un libro colto, pieno zeppo di citazioni letterarie e cinematografiche(Coè ha scritto anche una biografia di Bogart) che si incastrano bene nella struttura e mai di troppo. Intelligente e perfido, spiritoso e spietato. Un ritratto a tutto tondo di un'epoca destinata a non smettere mai di suscitare clamore. Nel bene e nel male.

lunedì 3 marzo 2008

Angeli perduti - di Wong Kar Wai. Con Leon Lai, Michele Reis, Takeshi Kaneshiro. Colore 95 min. Produzione Hong Kong.

Da una costola di "Hong Kong Express" Kar Wai ne ricava un altro film sulla solitudine. Una riflessione amara sull'incapacità del rapportarsi agli altri e sui sentimenti che non trovano sfogo. "Angeli perduti" è uno sguardo alienato e desolato sull'esistenza ritratto con telecamera in spalla, dilatazioni di immagini e filtri, ralenti. Estetica da videoclip come il regista ci ha abituato. Un universo onirico malinconico sullo sfondo di una Hong Kong stralunata e perennemente notturna. Storia di tre personaggi che non riescono a trovare posto nella società che li ospita, ognuno con la propria vita fatta di affanni, di dubbi e che grazie al Caso si incontreranno non sapendo nulla dell'altro. Un tragico epilogo ed un lampo di luce sul far del mattino rappresentano un finale mozzafiato: soprattutto l'immagine di due dei protagonisti lanciati in moto mentre albeggia è poesia pura. Un film disperato e di appena accennata speranza che non disdegna momenti divertenti e bizzarri ma sempre in una prospettiva che relega il protagonista in un'ottica solitaria, inadatto all'affettività. Angeli che cadono, desolati, turbati. Piccole anime che perdono la partita con la vita e che cercano una via salvifica tramite la cognizione del dolore prima e la fuga attraverso esso dopo.

venerdì 29 febbraio 2008



"La stupidità deriva dall'avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva dall'avere, per ogni cosa, una domanda."


Milan Kundera

giovedì 28 febbraio 2008

Saviour Machine - II - MCM/Massacre Records - 1994

Seconda prova per la band cristiana per eccellenza e virata verso un sound meno pesante rispetto al disco d'esordio e più incentrato sulla teatralità e la drammaticità dei brani. Meno impatto immediato ed arrangiamenti più curati fanno di SM II una perfetta colonna sonora per un viaggio nei luoghi più oscuri della propria anima, quelli oppressi da mille ipotesi e dubbi ma pronti a schiarirsi al minimo accenno di luce. Quella luce che nella parte finale del disco si intravede dopo un tortuoso cammino di ben oltre un'ora attraverso estasianti brani, epici crescendo drammatici e ballate pianistiche dall'intensità emotiva struggente come "American Babylon", Ancora imperante e la prestazione vocale di Eric Clayton, sorta di Virgilio che conduce l'ascoltatore in un mondo suddiviso tra sofferenza e speranza, tra visioni oniriche e mistiche escursioni nei meandri delle fede cristiana, che si apre e si conclude con i due brani "Saviour Machine I" e "Saviour Machine II" che ripercorrono lo stesso tema musicale ma che rappresentano rispettivamente l'invito ad attraversare senza paura quella "confusione" prima, il raggiungimento finale della salvezza dopo. In questo bel mezzo tutta l'intensità, la passione, la credibilità di una band che si esprime al meglio e che affronta tematiche difficili, in alcuni momenti troppo volte alla glorificazione ma che non scadono mai patetico. Una band ed un lavoro maturi che come pochi altri lasciano il segno, come la conversione ad una fede prima difficile da fare entrare nel cuore e che ora senza di essa non si riuscirebbe ad accettare, in pace con se stessi, la morte. Immensi.

Sito ufficiale

mercoledì 27 febbraio 2008

Il Petroliere - di PT Anderson. Con Daniel Day Lewis, Kevin O'Connor, Paul Dano, Ciaran Hindis. Colore 158 min. Produzione Usa 2007.

Daniel Plainview, un cercatore d'argento di inizio secolo scorso nella desertica California che comincia a trivellare in cerca di petrolio. Diventerà un ricco produttore di oro nero. Un petroliere. Diventerà soprattutto un cinico, un bastardo, tradotto in un linguaggio corrente e spregiativo. Un film assolutamente fuori da ogni standard produttivo commerciale con cui Anderson si prende la sua bella dose di rischi. In fondo è questo il suo cinema se si pensa a "Magnolia" ed in particolar modo a "Boogie Nights". Irriverente, spietato, al limite del paradosso. Qui prende a pretesto il contrasto tra potere economico e fanatismo religioso e ne ricava una umanità schiava di sé stessa, avida, arida e maledetta. Non c'è posto per i sentimenti se non in un rapporto padre-figlio articolato e difficile che alla fine avrà comunque la sua amara conclusione. Cupidigia. Assenza di valori. Plagio. L'assoggettare persone con un concetto spirituale che va di pari passo ancora oggi con l'accumulare ricchezza. L'esercito delle infinite chiese e credi americani che qui trova la sua perfetta rappresentazione. E' questa la nascita di una nazione, quella che ancora oggi si rispecchia in Plainview e Eli Sunday(Paul Dano nella parte del predicatore), ma moltiplicatasi in maniera esponenziale. Profitto, profitto, profitto. Potere, potere, potere. Fotografia magistrale, scene di una bellezza straripante(quella dell'esplosione del pozzo la ricorderemo a lungo) ed interpretazioni da brivido. Quella di DD Lewis. Maestoso. Gli ultimi quindici minuti del film te li senti addosso, dentro. L'attore inglese entra nella leggenda. Un film senza macchia alla soglie del capolavoro assoluto. La rappresentazione di un cuore di tenebra. Beffardo ed insolente che oltre a scavare nel terreno scava dentro di sé trovando man mano sempre più buio. Petrolio nella terra, pece nelle sua anima. Oscurità ovunque.

Daniel Plainview: alcune volte guardo gli uomini e non ci trovo nulla di interessante.

Come darti torto.

lunedì 25 febbraio 2008

Un cuore in inverno - di Claude Sautet. Con Daniel Auteuil, Emanuelle Beart, Andrè Dussollier. Colore 105 min. Produzione Francia 1992.

L'incapacità di amare. Di rapportarsi agli altri senza provare sentimento non corrispondendolo. Un'altra fine lettura del cineasta francese sulla psicologia che contorna e condiziona i rapporti amorosi. Questa volta più cinico del solito: Stéphane(Auteuil) seduce e conquista Camille(Beart), donna del suo amico e socio in affari per poi respingerla quando lei cede al suo corteggiamento. Un film misurato e per certi versi algido. Atmosfera decadente e scenografie sobrie mentre sullo sfondo si muovono l'arte liutaia e la musica classica. "Un cuore in inverno" è un'opera che si fa strada con amarezza tra le pieghe dell'animo umano e tra gli inestricabili intrecci della mente. Mette in gioco cuore e cervello, illusioni e sprezzo e ci dice che l'amore è sicuramente un gioco, ma soprattutto un gioco sadico che può fare molto male. Alla fine, con eleganza, Sautet non offre vie di fuga ai sentimenti. Li ricopre di quell'alone misterico che inseguiamo ogni volta nonostante non sappiamo mai cosa possa riservarci. In fondo è per questo che amiamo, perché pur potendo elencare una serie di motivi più o meno validi per tutti che ci legherebbero ad un'altra persona è il mistero a tenerci insieme. A mantenerci vivi. Lo stesso mistero che non riesce ad avvicinare Stephane a Camille: lui non crede nelle passioni. Allora decide di ritornare per sempre in letargo, nell'interminabile inverno interiore che custodisce il suo cuore arido. Arido, ma lontano dalla sofferenza. Lontano...

sabato 23 febbraio 2008




"La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli".

Karl Marx

venerdì 22 febbraio 2008

Hong Kong Express - di Wong Kar Wai. Con Tony Leung, Faye Wong, Takeshi Kaneshiro, Brigitte Lin. Colore 102 min. Produzione Hong Kong 1994.

Due episodi. Due storie simili e diverse allo stesso tempo. Un terzo episodio mai girato che farà da incipit per il successivo
film "Angeli Perduti". L'amore che finisce, la solitudine, la leggerezza nel raccontarle ed uno stile assai prossimo all'estetica da videoclip. Wong Kar Wai si fa conoscere al pubblico occidentale con un'opera di grande spessore ed un linguaggio filmico che in seguito farà proseliti. Fa muovere i suoi personaggi sullo sfondo di una Hong Kong frenetica e brulicante di luci e colori, li isola dal contesto ritraedoli in ralenty e slow-motion mentre la vita scorre e fa il suo corso. Videocamera in spalla, "Hong Kong Express" è un'idea che si trasforma in improvvisazione, quasi priva di sceneggiatura. Semplici e pochi dialoghi, un fiume di immagini ed una fotografia spettacolare di Chris Boyle. Ma c'è un tema sempre presente che corre lungo tutto la durate del film: l'inaridirsi dei sentimenti, quelli che hanno fine e quelli che non iniziano mai. Storie d'amore troncate e nuove avvolte nel mistero(primo episodio), desiderate e mai espresse chiaramente(secondo episodio). La sofferenza per quello che finisce e la paura per quello che potrebbe cominciare. Personaggi immersi in una malinconia persistente che perdono quello che hanno e temono quello che potrebbero avere. Una umanità fragile che stenta, che fatica a muoversi nei meandri delle passioni così dolcemente permeabile all'infelicità, così inevitabilmente vicina al corso della storia che vede Hong Kong diventare lentamente e tristemente cinese. Splendida colonna sonora, qualche ingenuità nel primo episodio, ma raccontato con una sincerità disarmante.

giovedì 21 febbraio 2008

Saviour Machine - 'Saviour Machine I' - Intense Records - 1993

Con questo disco parte la leggenda, quella di una band di fede cristiana che dona alla proprie composizioni un velo di sacralità e di drammaticità, che presenta testi cristiani ispirati dalle sacre scritture, un look assolutamente nuovo per mano di Eric Clayton, mente ed anima della band il quale si esibisce con la testa completamente dipinta di bianco, calvo ed un pendant con croce fissato nel mezzo della fronte. Heavy metal dalle profonde tinte oscure che attinge da certa dark-wave tipica degli '80(non è un azzardo nè il paragone con i Sister of Mercy né un confronto tra le voci baritonali di Clayton e Eldritch) ma che cammina con le proprie gambe grazie proprio alla mistura del sound sviluppato dalla band. Una vera leggenda, una band che si presenta al mondo musicale in piena epoca grunge e con un sound del tutto atipico. Combo coraggioso che mostra subito la personalità che la contraddistinguerà anche negli anni a venire, lontana dai trend e solo concentrata a portare avanti un discorso ben preciso, coerente, a volte fin troppo "rigido" ma indubbiamente di grande fascino. Il cotenuto del disco è di quello che cattura al primo ascolto e che non stanca anche dopo averne a lungo "abusato". La musica dei Saviour Machine è un luogo di ritrovo per anime addolorate, una sorta di luogo sacro in cui viandanti stanchi cercano un posto lontano dalla quotidianità. E "Carnival of Souls" è la porta di questo luogo, una porta sempre aperta che si muove su un 4/4 reso sognante dalla chitarra di Jeff Clayton che tesse trame celestiali sopra un manto di velluto nero disteso tra le corde vocali di Eric. Oltre la porta aspettano ansiose, invece, vere e proprie cavalcate metalliche come "Force Of The Entity" e la seguente spettacolare "Legion", che si impone con il suo mid-tempo stralunato accompagnato dal piano per poi esplodere nella seconda parte con una cavalcata degna della Vergine di Ferro e senza mai cancellare la propria impronta drammatica. Tutti i brani nascono e muoiono all'ombra della voce di Clayton in quella che si presenta come la prova più "metallica" della loro discografia, capace di interpretare tutti gli umori dettati dalle tematiche di cui scrive e di rendere l'intero disco una sorta di rappresentazione teatrale dove lui è il protagonista e gli altri componenti della band il cast artistico. La sua prova in "The Son Of The Rain" mette in contatto chiunque con il "suo" Dio anche se con idee religiose diametralmente opposte. E la band lo segue di pari passo come una comunità di fedeli al cospetto del proprio tramite verso l'Occhio Eterno che tutto dovrebbe muovere. Un disco che dona speranza e che allo stesso tempo riflette sul male che l'annebbia.

Sito ufficiale

martedì 19 febbraio 2008

Al Primo Soffio di Vento - di Franco Piavoli. Con Primo Gaburri, Mariella Fabbris, Ida Carnevali, Alessandra Agosti. Colore 85 min. Produzione Italia 2002.

Un giorno d'estate nella campagna a ridosso del Lago di Garda. Una famaglia intera, ogni singolo componente vive la propria solitudine immerso in una vegetazione incontaminata e nella enorme casa padronale. Ombre e luci. Silenzi. Lunghi silenzi. Accompagnato da nenie melanconiche di Ravel e Satie, "Al Primo Soffio Di Vento" è una raccolta di fotografie, di cartoline e di un simbolismo mai esasperato. La macchina da presa quasi sempre fissa racconta una non-storia di esseri in combutta con se stessi mentre la giornata scorre via scandita dall'inesorabile scorrere del fiume. Un uomo perso nel suo studio tra libri, computer ed incubi. La moglie alla prese con una solitudine ancora più pressante; la figlia minore s'imbatte nel primo turbamento amoroso, quella maggiore "incatenata" al pianoforte mentre suona la colonna sonora del film; un vecchio nel suo letto aspetto la morte, una zia cerca ed invoca disperatamente un amore o un figlio perduto. Gli unici a combattere la solitudine sono i lavoratori extracomunitari che mandano avanti l'azienda. Si ritrovano sull'argine del fiume nel tardo meriggio a cantare ed a danzare mentre la terra lentamente beve il sole. Un film non facile, riflessivo e fisico allo stesso tempo che trasmette un dolce senso d'inquietitudine, una perturbabile visione bucolica, un controaltare continuo e snervante tra la bellezza e la tristezza dell'esistenza. Fotografato in modo splendido dallo stesso Piavoli è un film dal sapore antico, privo quasi del tutto di dialoghi. Lento nel suo flusso poetico getta nel finale le basi di un nuovo giorno, forse diverso dopo una notte tersa, immota, sorvegliata dalla luna piena mentre la casa ed i suoi abitanti cadono nel sonno. L'unico momento in cui tutti, forse, sono vicini gli uni agli altri.
Citta Vecchia

Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada. Qui tra la gente che viene che va dall’osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s'agita in esse, come in me, il Signore. Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via.

Umberto Saba

lunedì 18 febbraio 2008

Away From Her - di Sarah Polley. Con Julie Christie, Gordon Pinsent, Olimpia Dukakis, Michael Murphy. Colore 110 min. Produzione Canada 2006.

Nonostante prossimi al mezzo secolo di vita vissuta insieme, Fiona(Christie) e Grant(Pinsnet) sono ancora teneramente legati come se fossero due novelli fidanzati. Fiona comincia ad accusare comportamenti strani, vuoti di memoria. E' il morbo di Alzheimer che si sta facendo lentamente strada tra le sue sinapsi. Inevitabile la scelta del ricovero presso una struttura
che accoglie quella tipologia di malati con l'avanzare del morbo. Tratto da un racconto breve di Alice Munro e da lei stessa sceneggiato, "Away From Her" è un film non sulla malattia ma sulle consenguenze che questa comporta sul piano umano ed affettivo. Brava la Polley, qui all'esordio, a non cadere mai nella lacrima facile e nel sentimentalismo spicciolo che fanno solitamente da contorno ai film di genere. Il tema è trattato con una sensibilità di fondo discreta, quasi in modo riservato ed in apparenza, solo in apparenza algido come nella filmografia del grande regista canadese Atom Egoyan, cooproduttore del film del quale si avverte palesemente la presenza(e l'ispirazione). Girata in patria, in luoghi dove il tempo scandisce lentamente ogni secondo dell'esistenza, dove paesaggi innevati e vegetazione risultano ancora intatti - l'opportunità di sfruttare al meglio la fotografia non è stata per fortuna sprecata - la pellicola è uno struggente canto d'amore e di dolore di due persone sul viale del tromonto di una vita che vivono in modo consapevole accettandone l'amaro decorso finale. Straodinaria la Christie, funzionale l'uso del flashback e dei suoi tempi narrativi.

domenica 17 febbraio 2008

Amon/Nimh - "Sator" - Eibon Records - 2007

L'universo dell'ambient e della musica sperimentale è sterminato. Ma se ne parla molto poco e si conosce la scena anche meno. Ed è facile perdere dischi importanti se non si frequentano canali privilegiati, quantomeno settoriali. Il caso di dischi importati che dovrebbero esulare da un contesto specifico è proprio "Sator". Nato dalla collaborazione tra due artisti nostrani ben noti alla scena, Amon(Andrea Marutti), storico progetto di dark-ambient, e Nimh(Giuseppe Verticchio), è un'affascinante discesa nelle cavità più profonde della terra. E' la riproposizione di un abisso, delle viscere, di un assordante sprofondare verso il non conoscibile, verso il mistero ancora irrisolto del quadrato magico del Sator. Formato da cinque parole di cinque lettere sovrapposte - ROTAS/ AREPO/ TENET/ OPERA/ SATOR - è sicuramente la struttura a palindromi più nota della storia. E cinque sono i brani presenti nel disco che ripropongono come titolo i cinque palindromi. Qui si scava a fondo attraverso synth, tools, sequencer, effettistica e molto altro ancora. Una ricerca che sembra voglia afferrare perlopiù l'effetto piuttosto che capirne la causa. Sonorità oscure, maree e flussi in perpetuo movimento, lentamente, che scandagliano singolarmente ogni elemento chimico che compone la sostanza. Chirurgicamente. "Sator" è un viaggio rituale più che un disco nel senso letterale del termine, e come tale fa fatica a rimanere inciso su di un supporto perché ogni volta che si attiva scopre una dimensione diversa dalla precedente. Un relativismo irrequieto che non trova motivo specifico di esistere neanche nell'ambiente in cui si muove. Perennemente distorto e dilatato. Come le molteplici interpretazioni date al quadrato nel corso degli anni, senza che si raggiungesse mai un'analisi definitiva e comune. E come tutte le cose che non hanno una definizione, di cui non se ne conosce lo scopo, anche "Sator" conserva il suo fascino esplorativo ad ogni ascolto. Un viaggio lungo le strade dell'indefinibile dove nessun valore è assoluto, ma tutto, ogni cosa, ha motivo di esistere.

Eibon Records

Recensione già pubblicata su Hardsouds.it

sabato 16 febbraio 2008

Uzak - di Nuri Bilge Ceylan. Con Muzaffer Ozdemir, Mehmet Emin Toprak, Nazan Kirilmis, Fatma Ceylan. Colore 110 min. Produzione Turchia 2003.

Due cugini. Due caratteri differenti. Due problemi diversi. Mahmut cade nell'angoscia a causa di un matrimonio andato a male. Personalità ostica la sua, insofferente, disillusa, chiusa in se stessa preda di un dolore esistenziale che lo tormenta. Questi ospita il cugino arrivato in città, disoccupato a causa della chiusura della fabbrica dove lavorava. E' Yusuf, spirito meno crucciato, invadente, più aperto alla socializzazione, scroccone, ma non meno sofferente, a modo suo, di Mahmut. Due vite a confronto che si scontreranno quotidianamente. Una convivenza forzata che non troverà nessun punto d'incontro se non nella crisi esistenziale che attanaglia entrambe le anime. Girato in una Istanbul addormentata, fatata e ricoperta di neve, "Uzak"(che in turco significa "lontano") è un film minimalista fatto di silenzi, di atmosfere soffuse e fumose, introspettivo. Un film sul fallimento, sull'incapacità di reagire al corso degli eventi. Per di più poetico(infatuante fin dalla bellissima locandina). Ceylan dirige a basso costo un'opera intensa sull'uomo destinato alla solitudine nel bel mezzo della globalizzazione e la fa con una cura maniacale. Ogni dettaglio, ogni scena hanno motivo di esistere. Diretto con una malinconia di fondo palpabile ma mai pesante, lento nel suo incedere, "Uzak" si mantiene sempre distante dalla consolazione e ci consegna una visione della vita destinata ad una infinita apatia come ci suggerisce l'indimenticabile ultima scena quando Mamhut sembra scrutare il mare e si sente smarrito come non mai. Una inettitudine esistenziale che ha un non so che di sveviano che condanna l'umanità a ritornare una nebulosa "priva di parassiti e di malattie”.

Curiosità: entrambi gli attori protagonisti furono premiati a Cannen ex aequo in quell'anno. Ma Mehmet Emin Toprak morì tragicamente in un incidente d'auto alcuni giorni prima della premiazione.

venerdì 15 febbraio 2008




"Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico. Sono spazioso, contengo moltitudini."


Walt Whitman
Circolo Chiuso - di Jonathan Coe. 403 pg. 2004.

Il seguito de "La Banda Dei Brocchi" in cui i personaggi si ritrovano adulti ognuno in preda a nuove frustrazioni, alle proprie ambizioni, alcuni ancora tra le grinfie del passato, altri tra difficili convivenze affettive, nuovi amori, scelte complicate, inevitabili altri incontri con altri personaggi che arricchiscono il parco dei caratteri della trama e che Coe ancora una volta riesce a dirigere con la sua intensa leggerezza e la sua tipica ironia da perfetto englishman. Parte della trilogia dedicata alla vita sociale e politica dell'Inghilterra del trentennio' 70-'80-'2000 - "La Banda Dei Brocchi" ripercorre gli anni '70, "La Famiglia Winshaw" gli '80 - "Circolo Chiuso"(il nuovo millennio) è un affresco dai colori accessi, come nella stile di Coe anche passionale ma calato in un clima storico grigio ed insicuro tra il pre ed il post 11 settembre, tra le paure e le speranze che la fine e l'inizio di un millennio si porta dietro ed in cui ancora una volta le lotte sindacali hanno il loro importante posto nel racconto. Poi matrimoni che saltano, segreti svelati, destini che si incrociano, colpi di scena, la guerra, gli interessi economici, le scelte politiche e la struttura perfetta del libro che ti tiene incollato alle pagine fino alla fine mentre brami dalla voglia di sapere come andrà a finire. Cosa che ti permette di arrivare alla fine come se avessi appena iniziato. Si narra dell'Inghilterra, ma non è arduo riconoscersi nei personaggi, sia riconoscere il nostro paese alle prese con le storture del mondo contemporaneo. Un libro più universale e meno cinico dei precedenti, questo, forse perché lo sfondo sociale dentro cui si muove tocca ormai tutti a prescindere dalla nazionalità e per di più calato pienamente nell'era della globalizzazione. Una trilogia che si chiude alla grande e che completa un ciclo narrativo ambizioso che designa Coe come uno dei migliori scrittori dei nostri giorni.

giovedì 14 febbraio 2008

Una Casa Alla Fine Del Mondo - di Michael Mayer. Con Colin Farrell, Robin Wright Penn, Sissy Spacek, Dallas Roberts. Colore 95 min. Produzione Usa 2004.

Bobby(Farrell) è un ragazzo particolare e sensibile che passa dall'infanzia all'adolescenza e da questa all'età adulta, portando con sé e coltivando ciò che ritiene più importante nella vita: l'amore. Questo nonostante la perdita drammatica del fratello maggiore, ed in rapida successione di mamma e papà. Solo, viene accettato dalla famiglia di Jonathan(Roberts), suo amico, col quale intraprende un timido rapporto omosessuale. Separati dal college, dopo anni di distacco Bobby va a vivere a New York con Jonathan e Clare(Wright-Penn, con la quale divide l'appartamento). Seguiranno piccole turbi, incomprensioni, brevi dolorosi distacchi, fin quando una nuova nascita porterà con sé anche la consapevolezza(o la maturazione) dei tre, delle loro scelte definitive. "Una casa alla fine del mondo" è un film gracile, tratto da un successo autobiografico dello scrittore di Micheal Cunningham(e da lui stesso sceneggiato). Potremmo certamente parlare di un menage a trois del nuovo millennio, di un film sull'omosessualità, di un film sulla famiglia(vista non dal lato canonico), ma è soprattutto un film sull'amore, quello incondinzionato che travalica genere e sesso. Michael Meyer, regista off-Broadway al suo debutto, dirige in scioltezza senza mai calcare la mano lasciando scivolare la storia naturalmente, prendendo qualche rischio di troppo(superato da una sceneggiatura convincente), ma senza mai lasciare in sospeso la narrazione. Ambientato in una sognante America e partendo da Cleveland(dove si conclude) sul finire degli anni '60, il film si porta dietro per tutta la sua durata quell'aura eterea, surreale, utopica tipica di quegli anni, rafforzata da una costante, splendida colonna sonora(Jefferson Airplane, Patti Smith, Bob Dylan e molti altri), e da un cast d'attori credibile dove Dallas Roberts(attore di teatro) ruba la scena al più noto Farrell. "Una casa alla fine del mondo" è anche un film importante oltre che un buon film. Nonchè coraggioso e purtroppo snobbato da gran parte di pubblico. Coraggioso perchè uscì all'indomani di una campagna elettorale di quella parte dell'America uscita vincente dalle scorse elezioni anche grazie all'opposizione inquisitoria proprio contro i temi in esso trattati; importante perchè lo fa in modo assai leggero senza il bisogno di dovere a tutti costi convincere nè lo spettatore, nè l'opinione pubblica(virtù rara di questi tempi). Emozionante, inoltre, con un lungo dolce-amaro finale che lascia appena intravedere, seppur immerso in una poetica consolatoria, una solitudine forse prossima e definitiva che non aveva mai trovato posto, invece, in tutta la storia anche durante il periodo di vita peggiore.

Alabama Thunderpussy - "Fulton Hill" - Relapse Records 2004.

Continua la coraggiosa ed apprezzabile politica della Relapse di mettere sotto contratto band che propongono un stile totalmente al di fuori dei canoni del mercato. Dopo i validissimi Zeke è il turno degli Alabama Thunderpussy, band di Richmond, Virginia, con già all'attivo diversi album ed una reputazione sempre in crescendo. Suonando un rock'n'roll classico ma fumoso, sporco e pesante, i riferimenti sono quelli soliti, dagli AC/DC ai Black Sabbath al southern rock. Quello che per certi versi rende caratteristica la proposta del gruppo è soprattutto la voce di Johnny Throckmorten, cosi cavernosa, roca ma abrasiva e furente che tende a trasportare le song verso profondi abissi ben oltre l'umana concezione. Cosa che purtroppo non si verificherà in futuro in quanto Johnny ha lasciato la band dopo le registrazione del disco. "Fulton Hill", comunque, è molto altro. Le sue ritmiche sincopate, la produzione sgraziata, le accordature degli strumenti talmente basse da sfiorare le fiamme dell'inferno e sprazzi di giri armonici costruiti in contemporanea dalle due chitarre che giustamente, come scritto nella presentazione del CD, hanno riminiscenza thinlizzyane, lo rendono un disco alquanto sinistro, possente, nonostante le aperture melodiche e la presenza di tanto in tanto di chitarre acustiche ed organo come nella migliore tradizione blues-southern("Three Stars"). La sola "R.R.C.C."(così come "Bear Baiting"), crea danni sia fisici, sia cerebrali. Animalesca, malefica, maldestra come un lupo mannaro ubriaco di Jack Daniels che si aggira per le strade con la bottiglia in mano. A tale furia non mancano episodi più ragionati e pacati come la semi-ballad "Alone Again" e l'acustica e malinconica "Do Not", o più diretti e lineari come la successiva "Lunar Eclipse" che sembra un brano scritto da Lee Dorian ed interpretato a suo modo dalla band: un riffone stoner/doom che martella la schiena spezzandola in due. Non c'è che dire, un grande disco. Solite istruzioni: accendete il lettore, chiudete la nonna e la sorellina nell'armadio, accostate il carrello dei liquori allo stereo, volume assordante, cagarsi sotto dallo spavento e che la musica vi benedica quando non ricorderete più niente ma vi sentirete maledettamente felici. That's the way i wanna rock n roll!!

Sito ufficiale

Recensione già pubblicata su Hardsounds.it

mercoledì 13 febbraio 2008



"Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati."

Bertolt Brecht


martedì 12 febbraio 2008

Jules e Jim - di Francois Truffaut. Con Henri Serr, Jeanne Moreau, Marie Dubois, Oskar Werner. B/n 1oo min. Produzione Francia.

Il mènage a trois più famoso della storia del cinema in cui amicizia ed amore si librano tra città(Parigi), e montagne(austriache) dell’Europa della prima metà del secolo scorso con una purezza “ideale” difficilmente riscontrabile in altre opere cinematografiche e che rendono la pellicola un’entità eterea, impalpabile. Un film universale, libero, non convenzionale, tragico ma poetico, una poesia talmente alta che rende anche il gesto finale un atto d’amore inopinabile, “arbitrato” da un Truffaut incredibilmente raffinato e malinconico il quale, con mano leggera e cuore in orbita dirige senza mai invadere la sceneggiatura con personalismi di genere. Il film narra la storia di Jules(Werner) e Jim(Serre), due ragazzi, uno francese(Jim) ed uno austriaco(Jules) i quali trascorrono le giornate corteggiando donne fin quando, di ritorno da un viaggio in Grecia, incontrano Catherine(Moreau) e ritrovano lo stesso sorriso che avevano visto scolpito su una statua. Catherine li ama entrambi, ma sceglierà di sposare Jules. Inizia così lo sviluppo della trama che si dipana tra divisioni(i due combatteranno contro durante la prima guerra mondiale), ed incontri(Jules che invita Jim allo chalet in montagna dove vive con Catherine e una figlia), tra la passione labile di Catherine(che sente di non amare più Jules), e la rassegnazione di Jules che accetta l’amore di lei per Jim. Fino ad arrivare all’ultimo atto del film quando Catherine, sconfitta dalla sua stessa labilità affettiva compie un tragico gesto. Jules, distrutto, in un atto di libertà emotiva straziante, al di fuori del Tempo e dello Spazio e di ogni altro Ente confutabile, piangerà l'assenza di entrambi. Un film massacrato all'epoca per le scelte di Truffaut giudicate amorali, per il suo completo distacco e senza partecipazione/presa di posizione. Ma un film che sotterra ogni possibile critica sotto metri e metri di poesia e libertà spirituale. Un film che ancora oggi conserva un enorme fascino decantando l’incontenibile forza dell’amore. Quello puro, ideale e da molti inseguito ma quasi mai raggiunto e, forse, motivo per cui continuiamo a rincorrerlo.