sabato 16 febbraio 2008

Uzak - di Nuri Bilge Ceylan. Con Muzaffer Ozdemir, Mehmet Emin Toprak, Nazan Kirilmis, Fatma Ceylan. Colore 110 min. Produzione Turchia 2003.

Due cugini. Due caratteri differenti. Due problemi diversi. Mahmut cade nell'angoscia a causa di un matrimonio andato a male. Personalità ostica la sua, insofferente, disillusa, chiusa in se stessa preda di un dolore esistenziale che lo tormenta. Questi ospita il cugino arrivato in città, disoccupato a causa della chiusura della fabbrica dove lavorava. E' Yusuf, spirito meno crucciato, invadente, più aperto alla socializzazione, scroccone, ma non meno sofferente, a modo suo, di Mahmut. Due vite a confronto che si scontreranno quotidianamente. Una convivenza forzata che non troverà nessun punto d'incontro se non nella crisi esistenziale che attanaglia entrambe le anime. Girato in una Istanbul addormentata, fatata e ricoperta di neve, "Uzak"(che in turco significa "lontano") è un film minimalista fatto di silenzi, di atmosfere soffuse e fumose, introspettivo. Un film sul fallimento, sull'incapacità di reagire al corso degli eventi. Per di più poetico(infatuante fin dalla bellissima locandina). Ceylan dirige a basso costo un'opera intensa sull'uomo destinato alla solitudine nel bel mezzo della globalizzazione e la fa con una cura maniacale. Ogni dettaglio, ogni scena hanno motivo di esistere. Diretto con una malinconia di fondo palpabile ma mai pesante, lento nel suo incedere, "Uzak" si mantiene sempre distante dalla consolazione e ci consegna una visione della vita destinata ad una infinita apatia come ci suggerisce l'indimenticabile ultima scena quando Mamhut sembra scrutare il mare e si sente smarrito come non mai. Una inettitudine esistenziale che ha un non so che di sveviano che condanna l'umanità a ritornare una nebulosa "priva di parassiti e di malattie”.

Curiosità: entrambi gli attori protagonisti furono premiati a Cannen ex aequo in quell'anno. Ma Mehmet Emin Toprak morì tragicamente in un incidente d'auto alcuni giorni prima della premiazione.

venerdì 15 febbraio 2008




"Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico. Sono spazioso, contengo moltitudini."


Walt Whitman
Circolo Chiuso - di Jonathan Coe. 403 pg. 2004.

Il seguito de "La Banda Dei Brocchi" in cui i personaggi si ritrovano adulti ognuno in preda a nuove frustrazioni, alle proprie ambizioni, alcuni ancora tra le grinfie del passato, altri tra difficili convivenze affettive, nuovi amori, scelte complicate, inevitabili altri incontri con altri personaggi che arricchiscono il parco dei caratteri della trama e che Coe ancora una volta riesce a dirigere con la sua intensa leggerezza e la sua tipica ironia da perfetto englishman. Parte della trilogia dedicata alla vita sociale e politica dell'Inghilterra del trentennio' 70-'80-'2000 - "La Banda Dei Brocchi" ripercorre gli anni '70, "La Famiglia Winshaw" gli '80 - "Circolo Chiuso"(il nuovo millennio) è un affresco dai colori accessi, come nella stile di Coe anche passionale ma calato in un clima storico grigio ed insicuro tra il pre ed il post 11 settembre, tra le paure e le speranze che la fine e l'inizio di un millennio si porta dietro ed in cui ancora una volta le lotte sindacali hanno il loro importante posto nel racconto. Poi matrimoni che saltano, segreti svelati, destini che si incrociano, colpi di scena, la guerra, gli interessi economici, le scelte politiche e la struttura perfetta del libro che ti tiene incollato alle pagine fino alla fine mentre brami dalla voglia di sapere come andrà a finire. Cosa che ti permette di arrivare alla fine come se avessi appena iniziato. Si narra dell'Inghilterra, ma non è arduo riconoscersi nei personaggi, sia riconoscere il nostro paese alle prese con le storture del mondo contemporaneo. Un libro più universale e meno cinico dei precedenti, questo, forse perché lo sfondo sociale dentro cui si muove tocca ormai tutti a prescindere dalla nazionalità e per di più calato pienamente nell'era della globalizzazione. Una trilogia che si chiude alla grande e che completa un ciclo narrativo ambizioso che designa Coe come uno dei migliori scrittori dei nostri giorni.

giovedì 14 febbraio 2008

Una Casa Alla Fine Del Mondo - di Michael Mayer. Con Colin Farrell, Robin Wright Penn, Sissy Spacek, Dallas Roberts. Colore 95 min. Produzione Usa 2004.

Bobby(Farrell) è un ragazzo particolare e sensibile che passa dall'infanzia all'adolescenza e da questa all'età adulta, portando con sé e coltivando ciò che ritiene più importante nella vita: l'amore. Questo nonostante la perdita drammatica del fratello maggiore, ed in rapida successione di mamma e papà. Solo, viene accettato dalla famiglia di Jonathan(Roberts), suo amico, col quale intraprende un timido rapporto omosessuale. Separati dal college, dopo anni di distacco Bobby va a vivere a New York con Jonathan e Clare(Wright-Penn, con la quale divide l'appartamento). Seguiranno piccole turbi, incomprensioni, brevi dolorosi distacchi, fin quando una nuova nascita porterà con sé anche la consapevolezza(o la maturazione) dei tre, delle loro scelte definitive. "Una casa alla fine del mondo" è un film gracile, tratto da un successo autobiografico dello scrittore di Micheal Cunningham(e da lui stesso sceneggiato). Potremmo certamente parlare di un menage a trois del nuovo millennio, di un film sull'omosessualità, di un film sulla famiglia(vista non dal lato canonico), ma è soprattutto un film sull'amore, quello incondinzionato che travalica genere e sesso. Michael Meyer, regista off-Broadway al suo debutto, dirige in scioltezza senza mai calcare la mano lasciando scivolare la storia naturalmente, prendendo qualche rischio di troppo(superato da una sceneggiatura convincente), ma senza mai lasciare in sospeso la narrazione. Ambientato in una sognante America e partendo da Cleveland(dove si conclude) sul finire degli anni '60, il film si porta dietro per tutta la sua durata quell'aura eterea, surreale, utopica tipica di quegli anni, rafforzata da una costante, splendida colonna sonora(Jefferson Airplane, Patti Smith, Bob Dylan e molti altri), e da un cast d'attori credibile dove Dallas Roberts(attore di teatro) ruba la scena al più noto Farrell. "Una casa alla fine del mondo" è anche un film importante oltre che un buon film. Nonchè coraggioso e purtroppo snobbato da gran parte di pubblico. Coraggioso perchè uscì all'indomani di una campagna elettorale di quella parte dell'America uscita vincente dalle scorse elezioni anche grazie all'opposizione inquisitoria proprio contro i temi in esso trattati; importante perchè lo fa in modo assai leggero senza il bisogno di dovere a tutti costi convincere nè lo spettatore, nè l'opinione pubblica(virtù rara di questi tempi). Emozionante, inoltre, con un lungo dolce-amaro finale che lascia appena intravedere, seppur immerso in una poetica consolatoria, una solitudine forse prossima e definitiva che non aveva mai trovato posto, invece, in tutta la storia anche durante il periodo di vita peggiore.

Alabama Thunderpussy - "Fulton Hill" - Relapse Records 2004.

Continua la coraggiosa ed apprezzabile politica della Relapse di mettere sotto contratto band che propongono un stile totalmente al di fuori dei canoni del mercato. Dopo i validissimi Zeke è il turno degli Alabama Thunderpussy, band di Richmond, Virginia, con già all'attivo diversi album ed una reputazione sempre in crescendo. Suonando un rock'n'roll classico ma fumoso, sporco e pesante, i riferimenti sono quelli soliti, dagli AC/DC ai Black Sabbath al southern rock. Quello che per certi versi rende caratteristica la proposta del gruppo è soprattutto la voce di Johnny Throckmorten, cosi cavernosa, roca ma abrasiva e furente che tende a trasportare le song verso profondi abissi ben oltre l'umana concezione. Cosa che purtroppo non si verificherà in futuro in quanto Johnny ha lasciato la band dopo le registrazione del disco. "Fulton Hill", comunque, è molto altro. Le sue ritmiche sincopate, la produzione sgraziata, le accordature degli strumenti talmente basse da sfiorare le fiamme dell'inferno e sprazzi di giri armonici costruiti in contemporanea dalle due chitarre che giustamente, come scritto nella presentazione del CD, hanno riminiscenza thinlizzyane, lo rendono un disco alquanto sinistro, possente, nonostante le aperture melodiche e la presenza di tanto in tanto di chitarre acustiche ed organo come nella migliore tradizione blues-southern("Three Stars"). La sola "R.R.C.C."(così come "Bear Baiting"), crea danni sia fisici, sia cerebrali. Animalesca, malefica, maldestra come un lupo mannaro ubriaco di Jack Daniels che si aggira per le strade con la bottiglia in mano. A tale furia non mancano episodi più ragionati e pacati come la semi-ballad "Alone Again" e l'acustica e malinconica "Do Not", o più diretti e lineari come la successiva "Lunar Eclipse" che sembra un brano scritto da Lee Dorian ed interpretato a suo modo dalla band: un riffone stoner/doom che martella la schiena spezzandola in due. Non c'è che dire, un grande disco. Solite istruzioni: accendete il lettore, chiudete la nonna e la sorellina nell'armadio, accostate il carrello dei liquori allo stereo, volume assordante, cagarsi sotto dallo spavento e che la musica vi benedica quando non ricorderete più niente ma vi sentirete maledettamente felici. That's the way i wanna rock n roll!!

Sito ufficiale

Recensione già pubblicata su Hardsounds.it

mercoledì 13 febbraio 2008



"Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati."

Bertolt Brecht


martedì 12 febbraio 2008

Jules e Jim - di Francois Truffaut. Con Henri Serr, Jeanne Moreau, Marie Dubois, Oskar Werner. B/n 1oo min. Produzione Francia.

Il mènage a trois più famoso della storia del cinema in cui amicizia ed amore si librano tra città(Parigi), e montagne(austriache) dell’Europa della prima metà del secolo scorso con una purezza “ideale” difficilmente riscontrabile in altre opere cinematografiche e che rendono la pellicola un’entità eterea, impalpabile. Un film universale, libero, non convenzionale, tragico ma poetico, una poesia talmente alta che rende anche il gesto finale un atto d’amore inopinabile, “arbitrato” da un Truffaut incredibilmente raffinato e malinconico il quale, con mano leggera e cuore in orbita dirige senza mai invadere la sceneggiatura con personalismi di genere. Il film narra la storia di Jules(Werner) e Jim(Serre), due ragazzi, uno francese(Jim) ed uno austriaco(Jules) i quali trascorrono le giornate corteggiando donne fin quando, di ritorno da un viaggio in Grecia, incontrano Catherine(Moreau) e ritrovano lo stesso sorriso che avevano visto scolpito su una statua. Catherine li ama entrambi, ma sceglierà di sposare Jules. Inizia così lo sviluppo della trama che si dipana tra divisioni(i due combatteranno contro durante la prima guerra mondiale), ed incontri(Jules che invita Jim allo chalet in montagna dove vive con Catherine e una figlia), tra la passione labile di Catherine(che sente di non amare più Jules), e la rassegnazione di Jules che accetta l’amore di lei per Jim. Fino ad arrivare all’ultimo atto del film quando Catherine, sconfitta dalla sua stessa labilità affettiva compie un tragico gesto. Jules, distrutto, in un atto di libertà emotiva straziante, al di fuori del Tempo e dello Spazio e di ogni altro Ente confutabile, piangerà l'assenza di entrambi. Un film massacrato all'epoca per le scelte di Truffaut giudicate amorali, per il suo completo distacco e senza partecipazione/presa di posizione. Ma un film che sotterra ogni possibile critica sotto metri e metri di poesia e libertà spirituale. Un film che ancora oggi conserva un enorme fascino decantando l’incontenibile forza dell’amore. Quello puro, ideale e da molti inseguito ma quasi mai raggiunto e, forse, motivo per cui continuiamo a rincorrerlo.

lunedì 11 febbraio 2008

Al mio cane

Ficcando il naso nero nel vetro,
il cane aspetta, aspetta sempre qualcuno.
Infilo la mano nel suo pelo,
io pure aspetto qualcuno.
Ricordi, cane, c'è stato un tempo
quando una donna abitava qui.
E chi era essa per me?
Forse una sorella, una moglie forse,
e forse, talvolta, sembrava una figlia
a cui dovevo il mio aiuto.
Essa è lontana... Ti sei fatto zitto.
Più non ci saranno altre donne qui.
Mio bravo cane, sei bravo in tutto,
ma che peccato che tu non possa bere!

Evgenij A. Evtusenko
Il Padrino parte III - di Francis Ford Coppola. Con Al Pacino, Andy Garcia, Diane Keaton, Joe Mantegna, Eli Wallach, Raf Vallone. Colore 168 min. Produzione Usa 1990.

Il terzo capitolo de "Il Padrino", praticamente il completo radicamento della "famiglia" all'interno di tutte le strutture del potere, ora anche in quella vaticana, ha una struttura mista che convoglia sia il dramma shakespereano, sia la tragedia greca. Mike, ormai, è una sorta di Re Lear che "muore" quando perde anche la figlia nel finale, uccisa al suo posto sulle scale del Teatro Massimo di Palermo. L'assassinio sembra sfaldare tutto il mondo dei Corleone, tutto l'impero costruito con sangue e denaro, come se la solitudine di Mike trovasse il suo drammatico epilogo, definitiva risposta e "ricompensa" del suo operato. Morirà poi solo, nella terra di suo padre, lì dove tutto ebbe origine, lì dove la storia trova la sua fine. Come un naturale ciclo dell'esistenza: nascita, vita e poi morte. Coppola, come già nella seconda parte, rende i Corleone partecipe della Storia, ora di quella italiana. Mike viaggia fino in Italia, si ritrova parte attiva di crimini e di misteri nostrani come il caso Sindona, l'omicidio Calvi e consolida il suo rapporto col Vaticano incontrando anche il Papa. Una terza parte visivamente pomposa, orchestrale, una rappresentazione spettacolare in cui si notano tutte le differenze di produzione, tra quelle inizio anni '70 e la presente agli albori dei '90. Esordio della figlia di Coppola, Sofia(oggi promettente regista), nella parte di Mary, figlia di Mike. Da tutti, effettivamente, considerata la parte minore della trilogia con una narrazione che accumula materiale(troppo) senza riuscire a districarsi tre le tante pieghe drammatiche della sceneggiatura. Anche se raffrontata alle numerosissime pellicole di genere risulta ancora e sempre un modello da seguire. A testimonianza di quanto il lavoro di Coppola, tirando le somme, sia tra quelli che saranno ricordati per sempre come tra i momenti più alti della storia della cosiddetta settima arte.
Sette nomination, nessun Oscar.

domenica 10 febbraio 2008

Il Padrino parte II - di Francis Ford Coppola. Con Robert de Niro, Al Pacino, Rovert Duvall, Diane Keaton, John Cazale, Gastone Moschin. Colore 200 min. Produzione Usa 1974.

La seconda parte de "Il Padrino" è il naturale seguito del primo film, ma magistralmente condito dalla storia parallela della gioventù di Vito Corleone(si sprecherebbero i superlativi per Bob De Niro, vincitore dell'Oscar), proprio per mettere in risalto le differenze della "famiglia" ora guidata dal figlio Mike, volta a sorpassare l'intero "credo" onorato dal padre: non più onore e rispettabilità, ma denaro, potere, ed avidità. Ma la svolta di Mike ha un che di metafisico, si abbandona per lunghi tratti avvolto nel pensiero e nel passato, spesso dubbioso delle sue scelte e sul futuro, ma tuttavia carnefice senza freno quando le trasforma in azione. E rimandi all'America dell'epoca(corruzione, intrecci politici ambigui etc.), se ne possono cogliere a bizzeffe, come bene in risalto, soprattutto, il passaggio dal vecchio ordinamento mafioso costruito sull'onore(una prerogativa assoluta del vecchio mondo e dei padri), a quello non curante dei valori che ostenta la ricchezza ed il potere raggiunto(il nuovo mondo del figli), quello che si plasma all'interno della classe sociale che guida una nazione. Infatti, Mike, oltre a radicarsi con efferatezza negli States, decide di allargare i propri affari ritrovandosi addirittura partecipe della Storia: a Cuba per affari, vive la rivoluzione cubana al suo apice poche ore prima della vittoria di Fidel Castro. Una seconda parte decisamente più oscura rispetto alla prima seppur stilisticamente la pellicola si muova come la precedente. Una pellicola che sgorga falcidia a non finire con Mike protagonista sterminatore di tutti quelli che insidiano la fortezza della Famiglia, fratello compreso. Chiuso nelle sue dimore come un re che difende ad ogni costo il suo castello. E nonostante tutto, come si diceva, in Mike vige una solitudine che oltre a non consolare ed a tratti pari a quella del padre, nonostante abbia un concetto della "famiglia" diverso e viva in un mondo diverso. Una solitudine che lo condanna mentre seduto sul suo trono cambia il destino del mondo. Segno che il passato e, probabilmente, le sue scelte, la sua scelta, lo rendono ancora preda e non cacciatore come in pubblico appare. Vincitore di sei premi Oscar: migliore attone non protagonista(De Niro), miglio film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora, miglior scenografia. Altro capolavoro.