sabato 23 febbraio 2008




"La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli".

Karl Marx

venerdì 22 febbraio 2008

Hong Kong Express - di Wong Kar Wai. Con Tony Leung, Faye Wong, Takeshi Kaneshiro, Brigitte Lin. Colore 102 min. Produzione Hong Kong 1994.

Due episodi. Due storie simili e diverse allo stesso tempo. Un terzo episodio mai girato che farà da incipit per il successivo
film "Angeli Perduti". L'amore che finisce, la solitudine, la leggerezza nel raccontarle ed uno stile assai prossimo all'estetica da videoclip. Wong Kar Wai si fa conoscere al pubblico occidentale con un'opera di grande spessore ed un linguaggio filmico che in seguito farà proseliti. Fa muovere i suoi personaggi sullo sfondo di una Hong Kong frenetica e brulicante di luci e colori, li isola dal contesto ritraedoli in ralenty e slow-motion mentre la vita scorre e fa il suo corso. Videocamera in spalla, "Hong Kong Express" è un'idea che si trasforma in improvvisazione, quasi priva di sceneggiatura. Semplici e pochi dialoghi, un fiume di immagini ed una fotografia spettacolare di Chris Boyle. Ma c'è un tema sempre presente che corre lungo tutto la durate del film: l'inaridirsi dei sentimenti, quelli che hanno fine e quelli che non iniziano mai. Storie d'amore troncate e nuove avvolte nel mistero(primo episodio), desiderate e mai espresse chiaramente(secondo episodio). La sofferenza per quello che finisce e la paura per quello che potrebbe cominciare. Personaggi immersi in una malinconia persistente che perdono quello che hanno e temono quello che potrebbero avere. Una umanità fragile che stenta, che fatica a muoversi nei meandri delle passioni così dolcemente permeabile all'infelicità, così inevitabilmente vicina al corso della storia che vede Hong Kong diventare lentamente e tristemente cinese. Splendida colonna sonora, qualche ingenuità nel primo episodio, ma raccontato con una sincerità disarmante.

giovedì 21 febbraio 2008

Saviour Machine - 'Saviour Machine I' - Intense Records - 1993

Con questo disco parte la leggenda, quella di una band di fede cristiana che dona alla proprie composizioni un velo di sacralità e di drammaticità, che presenta testi cristiani ispirati dalle sacre scritture, un look assolutamente nuovo per mano di Eric Clayton, mente ed anima della band il quale si esibisce con la testa completamente dipinta di bianco, calvo ed un pendant con croce fissato nel mezzo della fronte. Heavy metal dalle profonde tinte oscure che attinge da certa dark-wave tipica degli '80(non è un azzardo nè il paragone con i Sister of Mercy né un confronto tra le voci baritonali di Clayton e Eldritch) ma che cammina con le proprie gambe grazie proprio alla mistura del sound sviluppato dalla band. Una vera leggenda, una band che si presenta al mondo musicale in piena epoca grunge e con un sound del tutto atipico. Combo coraggioso che mostra subito la personalità che la contraddistinguerà anche negli anni a venire, lontana dai trend e solo concentrata a portare avanti un discorso ben preciso, coerente, a volte fin troppo "rigido" ma indubbiamente di grande fascino. Il cotenuto del disco è di quello che cattura al primo ascolto e che non stanca anche dopo averne a lungo "abusato". La musica dei Saviour Machine è un luogo di ritrovo per anime addolorate, una sorta di luogo sacro in cui viandanti stanchi cercano un posto lontano dalla quotidianità. E "Carnival of Souls" è la porta di questo luogo, una porta sempre aperta che si muove su un 4/4 reso sognante dalla chitarra di Jeff Clayton che tesse trame celestiali sopra un manto di velluto nero disteso tra le corde vocali di Eric. Oltre la porta aspettano ansiose, invece, vere e proprie cavalcate metalliche come "Force Of The Entity" e la seguente spettacolare "Legion", che si impone con il suo mid-tempo stralunato accompagnato dal piano per poi esplodere nella seconda parte con una cavalcata degna della Vergine di Ferro e senza mai cancellare la propria impronta drammatica. Tutti i brani nascono e muoiono all'ombra della voce di Clayton in quella che si presenta come la prova più "metallica" della loro discografia, capace di interpretare tutti gli umori dettati dalle tematiche di cui scrive e di rendere l'intero disco una sorta di rappresentazione teatrale dove lui è il protagonista e gli altri componenti della band il cast artistico. La sua prova in "The Son Of The Rain" mette in contatto chiunque con il "suo" Dio anche se con idee religiose diametralmente opposte. E la band lo segue di pari passo come una comunità di fedeli al cospetto del proprio tramite verso l'Occhio Eterno che tutto dovrebbe muovere. Un disco che dona speranza e che allo stesso tempo riflette sul male che l'annebbia.

Sito ufficiale

martedì 19 febbraio 2008

Al Primo Soffio di Vento - di Franco Piavoli. Con Primo Gaburri, Mariella Fabbris, Ida Carnevali, Alessandra Agosti. Colore 85 min. Produzione Italia 2002.

Un giorno d'estate nella campagna a ridosso del Lago di Garda. Una famaglia intera, ogni singolo componente vive la propria solitudine immerso in una vegetazione incontaminata e nella enorme casa padronale. Ombre e luci. Silenzi. Lunghi silenzi. Accompagnato da nenie melanconiche di Ravel e Satie, "Al Primo Soffio Di Vento" è una raccolta di fotografie, di cartoline e di un simbolismo mai esasperato. La macchina da presa quasi sempre fissa racconta una non-storia di esseri in combutta con se stessi mentre la giornata scorre via scandita dall'inesorabile scorrere del fiume. Un uomo perso nel suo studio tra libri, computer ed incubi. La moglie alla prese con una solitudine ancora più pressante; la figlia minore s'imbatte nel primo turbamento amoroso, quella maggiore "incatenata" al pianoforte mentre suona la colonna sonora del film; un vecchio nel suo letto aspetto la morte, una zia cerca ed invoca disperatamente un amore o un figlio perduto. Gli unici a combattere la solitudine sono i lavoratori extracomunitari che mandano avanti l'azienda. Si ritrovano sull'argine del fiume nel tardo meriggio a cantare ed a danzare mentre la terra lentamente beve il sole. Un film non facile, riflessivo e fisico allo stesso tempo che trasmette un dolce senso d'inquietitudine, una perturbabile visione bucolica, un controaltare continuo e snervante tra la bellezza e la tristezza dell'esistenza. Fotografato in modo splendido dallo stesso Piavoli è un film dal sapore antico, privo quasi del tutto di dialoghi. Lento nel suo flusso poetico getta nel finale le basi di un nuovo giorno, forse diverso dopo una notte tersa, immota, sorvegliata dalla luna piena mentre la casa ed i suoi abitanti cadono nel sonno. L'unico momento in cui tutti, forse, sono vicini gli uni agli altri.
Citta Vecchia

Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada. Qui tra la gente che viene che va dall’osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s'agita in esse, come in me, il Signore. Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via.

Umberto Saba

lunedì 18 febbraio 2008

Away From Her - di Sarah Polley. Con Julie Christie, Gordon Pinsent, Olimpia Dukakis, Michael Murphy. Colore 110 min. Produzione Canada 2006.

Nonostante prossimi al mezzo secolo di vita vissuta insieme, Fiona(Christie) e Grant(Pinsnet) sono ancora teneramente legati come se fossero due novelli fidanzati. Fiona comincia ad accusare comportamenti strani, vuoti di memoria. E' il morbo di Alzheimer che si sta facendo lentamente strada tra le sue sinapsi. Inevitabile la scelta del ricovero presso una struttura
che accoglie quella tipologia di malati con l'avanzare del morbo. Tratto da un racconto breve di Alice Munro e da lei stessa sceneggiato, "Away From Her" è un film non sulla malattia ma sulle consenguenze che questa comporta sul piano umano ed affettivo. Brava la Polley, qui all'esordio, a non cadere mai nella lacrima facile e nel sentimentalismo spicciolo che fanno solitamente da contorno ai film di genere. Il tema è trattato con una sensibilità di fondo discreta, quasi in modo riservato ed in apparenza, solo in apparenza algido come nella filmografia del grande regista canadese Atom Egoyan, cooproduttore del film del quale si avverte palesemente la presenza(e l'ispirazione). Girata in patria, in luoghi dove il tempo scandisce lentamente ogni secondo dell'esistenza, dove paesaggi innevati e vegetazione risultano ancora intatti - l'opportunità di sfruttare al meglio la fotografia non è stata per fortuna sprecata - la pellicola è uno struggente canto d'amore e di dolore di due persone sul viale del tromonto di una vita che vivono in modo consapevole accettandone l'amaro decorso finale. Straodinaria la Christie, funzionale l'uso del flashback e dei suoi tempi narrativi.

domenica 17 febbraio 2008

Amon/Nimh - "Sator" - Eibon Records - 2007

L'universo dell'ambient e della musica sperimentale è sterminato. Ma se ne parla molto poco e si conosce la scena anche meno. Ed è facile perdere dischi importanti se non si frequentano canali privilegiati, quantomeno settoriali. Il caso di dischi importati che dovrebbero esulare da un contesto specifico è proprio "Sator". Nato dalla collaborazione tra due artisti nostrani ben noti alla scena, Amon(Andrea Marutti), storico progetto di dark-ambient, e Nimh(Giuseppe Verticchio), è un'affascinante discesa nelle cavità più profonde della terra. E' la riproposizione di un abisso, delle viscere, di un assordante sprofondare verso il non conoscibile, verso il mistero ancora irrisolto del quadrato magico del Sator. Formato da cinque parole di cinque lettere sovrapposte - ROTAS/ AREPO/ TENET/ OPERA/ SATOR - è sicuramente la struttura a palindromi più nota della storia. E cinque sono i brani presenti nel disco che ripropongono come titolo i cinque palindromi. Qui si scava a fondo attraverso synth, tools, sequencer, effettistica e molto altro ancora. Una ricerca che sembra voglia afferrare perlopiù l'effetto piuttosto che capirne la causa. Sonorità oscure, maree e flussi in perpetuo movimento, lentamente, che scandagliano singolarmente ogni elemento chimico che compone la sostanza. Chirurgicamente. "Sator" è un viaggio rituale più che un disco nel senso letterale del termine, e come tale fa fatica a rimanere inciso su di un supporto perché ogni volta che si attiva scopre una dimensione diversa dalla precedente. Un relativismo irrequieto che non trova motivo specifico di esistere neanche nell'ambiente in cui si muove. Perennemente distorto e dilatato. Come le molteplici interpretazioni date al quadrato nel corso degli anni, senza che si raggiungesse mai un'analisi definitiva e comune. E come tutte le cose che non hanno una definizione, di cui non se ne conosce lo scopo, anche "Sator" conserva il suo fascino esplorativo ad ogni ascolto. Un viaggio lungo le strade dell'indefinibile dove nessun valore è assoluto, ma tutto, ogni cosa, ha motivo di esistere.

Eibon Records

Recensione già pubblicata su Hardsouds.it