venerdì 1 febbraio 2008

La Banda Dei Brocchi - di Jonathan Coe. 380 pg - 2001

Birmingham, anni '70. Quattro liceali che vivono gli anni dell'adolescenza, ad un passo da quella adulta, in un decennio colmo di avvenimenti politici, sociali e personali. Quasi una sceneggiatura di un film con il libro che inizia con due figli di due protagonisti della storia che si incontrano nel 2003 a Berlino e tramite un lungo flash-back rievocano i fatti di quegli anni. Musica, amori, lotte sindacali, differenze di classe, terrorismo ed altro ancora mentre la vita scorre inesorabile plasmando il destino di tutti. Un caleidoscopio di personaggi che Coe riesce a disegnare con un'ironia ed una dolcezza di fondo impressionanti. Prima parte di una storia che vedrà gli stessi personaggi ed altri nuovi nel seguito "Circolo Chiuso", a tratti scanzonato, irriverente, romantico. Pagine che appassionano, a volte dure guidate da uno stile fermo, diretto ma mai formale. Pagine di formazione di un gruppo di anime nel quale è facile calarsi e riconoscersi nonostante le ambientazioni e le differenze culturali che si possono riscontrare. Un grande affresco di una decade controversa ed allo stesso tempo affascinante, popolata da personaggi che difficilmente si dimenticheranno grazie ad un autore capace di far camminare le parole, di dare vita a sentimenti e ad eventi con la stessa destrezza e cinica tenerezza con cui la vita segna la sorte di ognuno di noi.

Curiosità: Il titolo originale del libro, "The Rotter's Club", è preso pari pari dal titolo di un disco degli Hatfield And The North, band progressive inglese attiva nei '70 e più volte citata nel libro.

giovedì 31 gennaio 2008

Agalloch - Ashes Agaisnt The Grain - The End Records 2006.

Dopo il giustamente acclamato "The Mantle" la band americana ritorna con un nuovo lavoro partorito con prospettive emozionali in larga parte immutate, ma stilisticamente diverso. Rispetto al precedente questo disco gode di un approccio differente che si distanzia dalle venature folk che avevano contraddistinto fortemente il precedente lavoro, e si approssima a quello più progressive di chiara estrazione europea. Questo senza mai abbandonare i riferimenti principali su cui il tutto si muove che spaziano dal gothic al black metal meno oltranzista. Detto questo, "Ashes Against The Grain" rappresenta la naturale evoluzione di uno stile che possiamo definitivamente etichettare come senza confine, aperto, che potrebbe non portare mai al termine un brano se non fosse per le ovvie esigenze di tempo. Stile che potrebbe trovare la sua dimensione ideale sul palco nonostante la musica proposta non goda dell'impatto necessario che dal vivo si richiederebbe. A dimostrazione di come la visione che gli Agalloch hanno della loro arte sia un continuo flusso emotivo che abbraccia la sfera della dilatazione sonora, attraversando la parte finale del ciclo vitale(la morte è sempre sulla porta pronta ad entrare), e le esperienze più prossime alla depressione ed alla malinconia, allo stato psichico che non conosce pace se non nel suo stesso tormento. "Falling Snow" e "Fire Above, Ice Below", in tal senso, sono intense rappresentazioni di scenari invernali che evocano quel senso di dolce inquietudine dal quale non si vorrebbe mai fuggire anche se vicini alla fine. Un sentimento che percorre l'intero CD, questo, in bilico tra disperazione e consolazione, abbandono e passione e che trova un cantore opportuno in Haughm il quale, tra screaming e voce pulita interpreta con evidente trasporto il mondo agallochiano: atmosferico, lugubre, annichilente, tuttavia così profondamente appagante, spirituale in cui, di tanto tanto, affiora anche una nota psichedelica(sarà questo il prossimo "passo" della band?) che lascia spazio ad ulteriori spiragli emotivi mai proiettati in precedenza. Segno che "Ashes Against The Grain" non solo ha la forza di coinvolgere sul piano introspettivo, ma serba in sé anche ulteriori soluzioni che hanno un non so che di visionario che rimandano sottilmente all'universo sconosciuto, padre di galassie e pianeti ancora senza nome. Un andare oltre, lontano, ben piantato nelle radici della terra.

Sito ufficiale

Recensione già pubblicata su Hardsounds.it

mercoledì 30 gennaio 2008

American Gangster - di Ridley Scott. Con Denzel Washington, Russel Crowe, Armand Assante, Cuba Gooding Jr. - Colore 157 min. Produzione Usa.

Ascesa e caduta di Frank Lucas(Washington), boss della droga nella Harlem degli anni '70. Tratto da una storia vera raccontata nel libro omonimo di Marc Jacobson, il nuovo film di Scott riporta un auge il tema classico del gangster movie e lo dirige con altrettanta classicità. Un duello di fondo che sembra quasi la serie di un telefilm che vede due figure contrapposte che cercano di dare il meglio nel loro mestiere(come già accade nello splendido "The Heat - La sfida" di Michael Mann): Lucas da una parte che "griffa" la sua produzione impadronendosi del mercato della droga, Roberts(Crowe) dall'altra, poliziotto ostinato e rispettoso della legge. Una dicotomia ben rappresentata da una sceneggiatura solidissima che tratteggia la personalità dei due protagonisti con puntiglio e profondità. A dire il vero è tutto l'impianto strutturale ad essere a dir poco entusiasmante. Fluido nonostante il racconto proceda per gradi e con un montaggio esemplare che passa da un protagonista all'altro continuamente senza mai ostacolarne lo sviluppo narrativo. Superlativa la prova d'insieme del cast con un Washington straordinariamente calato nella parte e Crowe che lo segue a ruota il quale, forse, non è mai stato così attento ed inquadrato in un ruolo. Da par suo Scott si rimette in riga dopo le recenti prove non esaltanti grazie ad una direzione di sostanza, senza sprechi di immagini né virtuosismi tirando fuori il meglio dagli attori. Forse il film pecca dal lato strettamente emozionale. Pur essendo avvincente non raggiunge mai una tensione tale da lasciarti una traccia dentro da ricordare. Un incedere corale fascinoso ma forse troppo contenuto. Un ottimo film, in pratica, ma eccessivamente incensato. Scomodo ed improprio il paragone con "Il Padrino".

martedì 29 gennaio 2008

Nella Nebbia

Strano, vagare nella nebbia!
È solo ogni cespuglio ed ogni pietra,
né gli alberi si scorgono tra loro,
ognuno è solo.
Pieno di amici mi appariva il mondo
quando era la mia vita ancora chiara;
adesso che la nebbia cala
non ne vedo più alcuno.
Saggio non è nessuno
che non conosca il buio
che lieve ed implacabile
lo separa da tutti.
Strano, vagare nella nebbia!
Vivere è solitudine.
Nessun essere conosce l'altro
ognuno è solo.

Hermann Hesse
La casa di sabbia e nebbia - di Vadim Perelman. Con Ben Kingsley, Jennifer Connelly, Ron Eldard. Colore 126 min. Produzione Usa 2003.

Vadim Perelman, regista di origine ucraina, dopo anni di pubblicità si affaccia per la prima volta al cinema con un film riuscito a metà. Se non fosse per le corpose prestazioni del duo Kinglsley-Connelly su cui la storia poggia gran parte del suo interesse tecnico-emozionale il film rischierebbe, probabilmente, di essere ricordato solo come una pellicola d’esordio. Una casa arroccata sulle alte coste della California che guarda da lontano il mare è il perno attorno a cui si muove l’intera vicenda. Un luogo dove si consumano speranze ed illusioni nell’attesa di ritrovare quello che in passato si aveva e che il destino, purtroppo, ha in seguito privato. A contendersela sono Kathy(Connelly), proprietaria dell’immobile abbandonata dal marito e preda della tossicodipendenza, ed un ex colonnello dell’aviazione iraniana immigrato con famiglia, Massoud Behrani(Kingsley). In un crescendo di tensione narrativa che Perelman riesce a tenere a bada solo grazie all’apporto dei protagonisti, si inscena un conflitto tra i due che condurrà ad un tragico finale. La storia ha diversi punti iniziati ma non portati a termine come, ad esempio, in tema di attualità, le difficoltà di comunicazione tra due mondi agli antipodi che si incontrano e si scontrano; ha un tema di fondo non abusato al cinema come quello del possesso di un immobile ma che viene solo figurato come un pretesto per mandare avanti il racconto e non un vero e proprio motivo di approfondimento delle due anime in gioco. Sicuramente Perelman ha il merito di non schierarsi con nessuno dei due contendenti, ma sono questi ultimi che a dare vigore ad una volontà comune eccessivamente poco chiara tanto da ridurre la casa ad un trofeo da conquistare per abbattere il passato, piuttosto come un luogo dove potere vivere e ritrovare serenità ed un minimo di dignità. Un film da vedere, tratto dal best-seller omonimo di Andre Debus III, e con qualche scena anche credibile, ma fitto di un lirismo algido che oltre al distacco crea anche poca apprensione per gli eventi a causa di una lentezza narrativa troppo esasperante. Magistrali le prove di Connelly e Kinglsley e film candidato a tre premi Oscar.