“Big Fish” è una favola di buoni sentimenti. Una favola fantastica come nello stile di Burton, regista visionario, ipercreativo il quale, con questo nuovo film, raggiunge finalmente la maturazione assoluta. Dopo il brutto ed inutile remake de “Il pianeta delle scimmie”, unica macchia all’interno della sua filmografia, Tim gira una storia surreale a volte al limite del grottesco, ma con una profonda coscienza del mezzo tecnico e del talento di cui dispone e si spinge là dove non aveva mai osato in precedenza in modo cosi inequivocabile: verso la commozione. Niente di stucchevole, pura è semplice commozione in un finale che lascia senza fiato e con le lacrime agli occhi. Proprio gli occhi hanno di cosa estasiarsi e la spensieratezza è ben coltivata, ma un punto cruciale del film consiste nella riflessione sulla paternità ben incastonata nella sua struttura trasognante. “Big Fish” narra di un raccontatore di storie patologico, ne ha una pronta per tutte le occasioni, anche durante il matrimonio del figlio, momento in cui avviene il distacco tra i due. Ma Edward Bloom(un bravissimo Albert Finney), si ammala gravemente, ed al suo capezzale la moglie Sandra(Jessica Lange), chiama il figlio Will(Bill Crudup), il quale dopo il matrimonio era andato a vivere a Parigi con la moglie. L’astio tra i due è sempre poggiato sull’insistenza del padre nel volere raccontare storie inventate, che se non fossero così intrise di immaginazione suonerebbe come delle vere e proprie balle. Will, invece, è un giornalista abituato a raccontare storie vere. Dopo un percorso a ritroso che ricostruisce la vita di Edward con numerosi flash-back, in punto di morte Will chiede al padre di raccontargli, almeno per una volta, la verità. Questo ultimo racconto sarà anche quello più entusiasmante e toccante, tanto che il figlio collaborerà alla narrazione, quasi redento per non avergli mai creduto. E’ stato scomodato Fellini, ed il paragone è calzante. Il film pullula di personaggi strambi, di luoghi incredibili, di situazioni spassose e molto altro ancora proprio come nella vena del maestro italiano. Ed in questo caleidoscopio di immagini e situazioni Burton lascia scorrere la macchina con un piacere devastante, attraversando una sorta di romanzo picaresco fatto di fotogrammi che sfociano spesso e volentieri nel mondo onirico. Divertente, a tratti geniale, riflessivo, commovente, filmato in maniera elegante con uno sfavillare di colori da abbagliare ipotetici abitanti di pianeti lontani e non da meno interpretato in modo splendido dall’intero cast. Ci sono tutti gli ingredienti per dichiarare apertamente e senza retorica che “Big Fish” è un film
I N D I M E N T I C A B I L E!
sabato 19 gennaio 2008
venerdì 18 gennaio 2008
fugaci e distratti sguardi quanto d’intesa, in brevi confessioni
ed amare conclusioni sull’amore, sulla famiglia, sul matrimonio.
Mai un contatto fisico(cosa unica di questi tempi), mai la tentazione, almeno apparente, di andare oltre lo scambio reciproco della compagnia e finire inesorabilmente a letto. No, nulla di tutto questo. Bob Harris, un bravissimo Murray, è un noto attore sulla via del tramonto ed in crisi matrimoniale, ora a Tokyo per girare spot pubblicitari; Charlotte(Johansson), anche lei a Tokio e neosposa al seguito del marito fotografo preso solo dalla sua professione, è già scontenta del suo matrimonio. Alloggiano nello stesso hotel, dove si incontrano. Due persone, un gap generazionale che non entra mai in gioco, che si scambiano con una spontaneità incredibile quanto sentono dentro. La macchina da presa, spesso in spalla, li riprende in giro per una Tokyo a dir poco commovente, sognante, allucinogena, futuristica, ripresa da tutte le angolazioni, spesso di notte in giro per la strade luccicanti, a volte di giorno, dall’alto, osservandola dalla finestra della stanza di Charlotte mentre silenziosa scruta la città e dentro sé stessa. Segue i due personaggi che incontrano altra gente e si ritrovano in sexy bar, karaoke ed in altri posti bizzarri, si salutano, si incontrano ancora in albergo. La Coppola, autrice anche della sceneggiatura premiata con l’Oscar, mette in scena un racconto dolce-amaro sulla crisi esistenziale e matrimoniale di due generazioni che trovano un punto comune nell’amarsi vicendevolmente senza sforzo, lentamente, come il maturare di un frutto. E ci regala un finale tra i più belli degli ultimi anni. Come lo stesso film.
giovedì 17 gennaio 2008
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore
mercoledì 16 gennaio 2008
lunedì 14 gennaio 2008
Un tarlo che scava in profondità, nelle viscere, confezionando badili di dolore e disperazione, e che orchestra un vuoto esistenziale sotto forma di ambient algido e liturgico ed il dark più accondiscendente al doom. Parole mai dette, presente e passato che si fondono annunciando un futuro privo di luce, tormento interiore, una pioggia incessante, dentro, che segna i giorni e gli anni di un'anima opaca, grigia, che si rassegna lentamente al buio. Un tarlo che divora il tempo, che ti consuma, che ti lacera l'età e ti trasforma in un corpo oscuro con ancora sangue nelle vene che vagabonda senza meta nei sotterranei della vita. Colonna sonora empatica, ma che non lascia scampo. Musica che si avviluppa e che insistendo nello scavare cerca la soluzione nella stessa assenza di luce che ne suscita la sofferenza, ed in quel buio rimanere in eterno perchè trionfo di una ipotetica via d'uscita. Un lamento consapevole, lucido. Una riscossa cercata lì dove risiede la disperazione dell'individuo nel tentativo di renderla necessaria dopo averla conosciuta in tutta la sua sostanza. Lo stesso identico percorso già battuto dal precedente "A Calling To Weakness", capolavoro di inestimabile dolore, e che questo nuovo lavoro riprende in egual struttura trascinandosi verso territori più melodici e verso sfumature ambient più elaborate, ma con la stessa identica dose di malinconia di fondo, la stessa arrendevolezza emotiva, la stessa liricità che rende anche questo "Unsaid Words" un canto struggente, intenso, minimale, timido ma spettrale, avanguardia sonora ma ancorato alla darkwave ottantiana, fondamentale per chiunque abbia a cuore le sorti della propria devastazione interiore. E rassegnarsi a conviverci per sempre imparando a conoscerla perchè
La vita morde forte alle spalle
e quando sorride
fa soltanto del male
Inganna, confonde, poi ti mente
accarezza poi disprezza
cancella tutto quando vuole
senza darti una risposta
senza darti un'altra volta.
domenica 13 gennaio 2008
Tipico film che divide critica e pubblico ed allo stesso tempo divide sia critica sia pubblico al loro interno. Dopo l’interessante “Amores Perros” il regista messicano, passato alla corte di Hollywood, effettivamente mette in scena un film non facile che rischia di essere etichettato come grande film da una parte e come irritante accademia dall’altra. Con una struttura frammentata, sconnessa, piena zeppa di flash-back e flash-forward Inarritu prova a destabilizzare il concetto narrativo classico(grazie anche ad un montaggio frenetico al limite della regia pubblicitaria) attraverso una storia fatta di personaggi che si incontrano per caso. Paul(Penn), professore universitario di matematica, ha bisogno di un cuore nuovo. Jack(Del Toro), è un ex delinquente che ha messo la testa a posto grazie ad una rivelazione religiosa che supera il fanatismo. Chritina(Watts), mamma e moglie felice di una tipica famiglia americana. A farli incontrare sarà un evento tragico: Jack investirà mortalmente col suo pick-up il marito e le due bambine di Christina. Alla fine “21 Grammi” risulta esteticamente bello e tecnicamente eccelso. Invidiabile la scelta di volere fotografare i vari momenti(presente, passato e futuro) con colori e sfumature differenti in modo da non stordire troppo lo spettatore, ma c’è da dire anche che la pretesa sembra fin troppo studiata a tavolino ed atta a colpire appositamente un immaginario sensibile al virtuosismo. Senza dubbio un film intrigante che se preso nel verso giusto, cioè guardare il film senza porsi tante domande durante la proiezione lasciandosi andare tra gli sfilacci della struttura potrebbe risultare gradevole e potrebbe essere un motivo di dibattito visti i temi importanti che il film affronta. Che la verità sia ancora una volta nel mezzo? Resta il fatto, tuttavia, che Inarritu è un regista di talento che potrà sorprenderci molto di più quando e se riuscirà a dare vita alle sue intuizioni con piena maturità. Da citare la prova di tutti gli interpreti, Penn(che ha vinto la Coppa Volpi al festival di Venezia del 2003) e Del Toro su tutti, e quella della sorprendete Watts(“The Ring”), davvero intensa tanto da guadagnarsi la figura di una nascente, ma ancora molto lontana, Meryl Streep.
Ps. I 21 grammi del titolo sono, secondo una leggenda scientifica, il peso che ognuno perde quando muore. Quindi, ipoteticamente, visti come il peso dell’anima che abbandona il corpo.