
Henry Chinasky è la quintessenza dell'autodistruzione. Si trascina di bar in bar, cambia lavoro continuamente, irrequieto negli affetti anche quando (forse) trova la donna della sua vita, strafatto di scopate e di alcool e devoto ad una apatia profonda che rappresenta la linfa vitale della sua esistenza. Relaziona con altri perdenti, con donne ai margini, attaccato perennemente alla bottiglia. L'unica sua certezza è scrivere. Scrivere di quella vita, scrivere dell'inferno che si sta vivendo e farlo solamente per raccontare, non per redemirsi, né come valvola di sfogo. Alter ego di Bukowski, un Matt Dillon sorprendente e coraggioso che si ritaglia addosso un personaggio a tutto tondo e fottutamente credibile, Chinasky è un disadattato figlio di puttana immerso in una realtà ancora più acida e distruttuvia, in quell'America fatta di poveri cristi alla deriva dimenticati anche dal padreterno. Regista norvegese, Hamer mette al servizio del personaggio la telecamera senza mai prendere posizione. Come Chinasky, anche lui, a modo suo, si limita a raccontare quello che succede oltre l'obiettivo facendo coincidere con questa scelta il difetto ed il pregio di un film comunque valido, appassionante, dannato, scorretto. In qualche punto più lento del dovuto, ma reso fluido dalla magistrale interpretazione di un Dillon in stato di grazia. Ormai l'unico belloccio di Hollywood con le palle nello scegliere sceneggiature scomode e dallo scarso appeal commerciale.