
venerdì 11 gennaio 2008

giovedì 10 gennaio 2008

Recensione già pubblicata su Hardsounds.it

L’America non ha un padre. Fin troppe volte si è dato ascolto ai consigli ad ai richiami dello zio Sam. E fin troppe volte, i padri che dovrebbero essere tali annullano i figli nel nome(indiretto) del più annichilente atto di violenza: quella psichica come conseguenza di quella fisica: i tre bambini della storia che sfuggiti ai lupi, diventati grandi, si trasformano loro stessi in lupi. Mastro Eastwood, forse il cineasta più credibile degli States ancora in vena di girare film invece che fare semplicemente cinema, ha tratto dal libro “La morte non dimentica” di Tennis Lehane(grazie alla entusiasmante sceneggiatura di Brian Helgeland, già autore di quella di “L.A. Confidential”) una pellicola agghiacciante in fatto di tema sia sociale, sia morale. Avvalendosi di un cast eccezionale, Penn in stato perenne di grazie vincitore dell’Oscar quale migliore attore protagonista, ed un altrettanto immenso Robbins anch’egli vincitore della statuetta ma come migliore interprete non protagonista, Clint ritrae la vita di un quartiere operaio di Boston ed il dramma comune che lo attanaglia attraverso il vincolo che lega fin da ragazzini tre personaggi i quali, dopo il rapimento di uno dei tre ad opera di due ambigui “poliziotti” che lo violenteranno sessualmente, si ritroveranno adulti e distanti venticinque anni dopo, pur vivendo nella stessa città, ognuno con il proprio mestiere, le proprie paure ed insicurezze. A riportarli ancora in contatto un altro episodio drammatico: l’omicidio della figlia di Jimmy(Penn). “Mystic River” è un continuo fluttuare di emozioni. E’ il ritratto severo di un mondo che immerso nel dubbio si lascia trascinare nel baratro della vendetta per espiare il proprio dolore(e la propria colpa). Robbins-Dave è una sorta di cacciatore di pedofili, Jimmy-Penn ucciderà Dave sospettato di essere l’omicida della figlia, Sean-Bacon che da tutore della legge sembra essere al di sopra delle parti, nel finale, con un gesto ambiguo quanto esplicativo, proverà ad uccidere Jimmy e, forse, se stesso perché, come racconta a Jimmy , quel giorno quando rapirono Dave, anche loro subirono indirettamente le stesse violenze. E’ la morte, dunque, che cancella tutto, dolore e dubbi compresi? Ed in effetti, dopo la perdita dell’innocenza, sembra sia quello l’unico modo, paradossalmente, per vivere senza paura. Clint non risparmia neanche il cattolicesimo. Come in tutto il film, non prende nessuna posizione, né la parte di nessuno dei suoi personaggi. Racconta, e dicono molto più di mille parole due inequivocabili scene: il primo piano dell’anello di uno dei due poliziotti che rapiscono Dave con una croce in bella mostra all’inizio del film, e l’enorme tatuaggio di Jimmy sulla schiena, sempre una croce, nel lungo epilogo. Dopo il padre assente de “Un mondo perfetto”, e dopo i padri ladri-assassini de “Gli spietati”, un altro capolavoro sul peccato senza possibilità di redenzione, sulla figura di chi dovrebbe guidare ed essere un punto di riferimento ma che, ciclicamente, fallisce drammaticamente.
E’ questo mondo, tutto sommato, a non avere un padre.
mercoledì 9 gennaio 2008

lunedì 7 gennaio 2008

Se il progetto Amon/Nimh viveva di sangue e terra lanciate alla ricerca dell'indefinibile attraverso il CD 'Sator', la nuova forma artistica del duo Giuseppe Verticchio/Andrea Marutti assume sembianze meno misteriche e relativistiche per addentrarsi nell'oscurità e scrutarne il senso. Così, lo sprofondare di 'Sator' nelle viscere della creazione lascia il posto alla tentazione di dare un nome alle tenebre non per carpirne i segreti, ma per chiamarla letteralmente per nome. Una riflessione in confidenza con un interlocutore ostico, secolarmente prodigo di mutismo e così divertito dal celare un immaginario perlopiù inesistente ma tremendamente rilevante. Questo è a mio avviso lo scopo di 'Reflections On Black', nuovo lavoro che esce a distanza di poco tempo dal precedente connubio artistico. E' il tentativo di dare parola ad un concetto privo di materia, senza corpo, ma in grado di condizionare la vita pur non esistendo. L'oscurità è prima di tutto una proiezione di noi stessi dentro cui raffiguriamo tutte le paure, la stanchezza di esistere e, soprattutto, diversamente, un luogo dove rifugiarsi, curarsi, lontano dalle insidie della modernità. Ed i quattro movimenti presenti nel disco la stratificano, la sezionano fino a farla diventare un unicum filosofico finale che non pretende di dare né cerca risposte, solo essere compreso. La strumentazione è tipica del genere, via di synth, montaggio audio, effetti, tapes etc. con una inaspettata, malinconica chiusura, "Recovery", affidata principalmente alla chitarra elettrica: forse il momento meno ispirato - comunque penetrante - a causa di un ripetersi perpetuo di arpeggi che alla lunga non scuote come nei precedenti movimenti, quelle mete obbligate così intense e tattili. Come sentirsele addosso, come se cercassero di entrarti sotto pelle, farti sentire l'oscurità in tutta la sua dimensione mentre dispensa velate ma percettibili melodie che si struggono da sole all'inverosimile. Non un lamento, ma un canto. Non disperato: consapevole della sua essenza. Gli Hall Of Mirrors tracciano le condizioni per arrivare ad un Nirvana a rovescio dove l'illuminazione non la si raggiunge distaccandosi dalle cose del mondo terreno, ma introiettandosele. Perché il buio aiuta a vedere le cose come realmente sono.
Il peso specifico dell'oscurità.
Recensione già pubblicata su Hardsounds.it